Questa letteratura calabrese è una storia della cultura e non delle sole forme letterarie; pertanto essa si unisce alla storia delle idee, alla storia civile e politica e dei gruppi intellettuali. La letteratura conferma la sua specificità, però, fin dal suo disvelarsi dalla cultura greca e latina, una specificità che nasce dalla vita la quale nella regione (e nelle subregioni, nelle isole partimentate, autonome o diasporiche) è stata sempre difficile. La letteratura porta i sigilli della realtà vissuta, quando si allontana da quella realtà è evasione nel platonismo, negli idealismi, nei nominalismi.
Lo studio di tale letteratura legata alla storia e alle idee fa vedere che i gruppi intellettuali attivi (utopisti medievali e rinascimentali, scrittori dialettali, filosofi illuministi, filosofi scienziati, patrioti romantici, riformatori ecc.) hanno dovuto sempre lottare contro altri gruppi legati ai blocchi dominanti (religiosi, aristocratici, galantuomini) che ritenevano di rappresentare una funzione autonoma o superiore. Ci siamo soffermati, in proposito, sulle illusioni ideologiche degli intellettuali.
La letteratura ha le sue radici nella realtà popolare della Calabria ma abbiamo tenuto in guardia dalla «calabresità» e dal populismo (dalla pietà verso il popolo, dalla compassione piangevole che esiste sia nei prodotti in lingua che in quelli dialettali: la giustizia vola sempre più alto dei bassi lidi della poltiglia sentimentale) e da altre mistificazioni: i miti non veri (che non hanno radici nella vita), i soggettivismi, gli universalismi, le finte nobilitazioni delle sacralizzazioni interessate ecc. Tali modi di leggere la letteratura derivano dalla mancanza di razionalità e di conoscenza storica, sono i risultati della chiacchiera che non ha funzione critica.
In questa molto più ampia edizione la tensione è tutta verso le opere veramente originali che costituiscono la grandezza e la specificità di questa letteratura regionale quasi sempre di opposizione: i fenomeni riflessi (petrarchismo, umanesimo formale, seicentismo, arcadia) hanno scarso valore, quasi insignificante nella regione. L’originalità è anche nella geniale letteratura in dialetto che nella nuova edizione occupa un posto cospicuo, letteratura che non ha eguale in altre regioni.
Ovviamente le precisazioni e le integrazioni fatte sono state molte. Una Calabria molto diversa da quella degli anni Sessanta è quella di oggi. Il processo di ricambio della classe politica è avvenuto solo parzialmente quando si era giunti alla putrefazione, taluni cambiamenti sono stati peggiori della condizione precedente. La mafia ha prosperato in un tessuto di miseria e di disoccupazione in cui anche la scuola è stata abbandonata a se stessa e non ha fornito i debiti comportamenti civili. La cultura si dissangua per la diaspora e perché gli abitanti della regione sventrando barocco, necropoli, borghi hanno perduto la propria identità culturale. In luogo della varietà di ceti stratificati da secoli di storia esistono ormai una piccola borghesia improduttiva e parassitaria e un sottoproletariato urbano disperato che in questi ultimi decenni hanno guardato all’arcipelago dei parenti politici di Roma come ha descritto Strati in un suo romanzo.
In questo pullulare di soggettivismo in cui tutto è «micro» per sparizione di cultura, in cui tutto diventa «macro» per insorgenza di individualistica lalìa che trova le sue alimentazioni negli esempi dei grandi mezzi di comunicazione (che tolgono la possibilità della vera comunicazione abolendo la discussione, concedendo il facile, l’utile, il trasgressivo d’accatto) manca la cultura che deriva dallo studio e dalla memoria, declinano gli istituti della conservazione culturale. Studiare la letteratura della regione vuol dire studiarla realisticamente, in tutti i suoi aspetti, nei suoi limiti, nelle contraddizioni interne. In questi venti anni trascorsi dalla seconda edizione del nostro testo – anni di contributi storici, letterari, antropologici di notevole rilievo – ci sono state interpretazioni arbitrarie dovute a mancanza di approfondimento, di conoscenza storiografica.
Indicheremo qualcuna di tali deficienze. Un errore di base è la «calabresità», uno pseudo-concetto maldestramente usato non solo dai giornalisti (che ne fanno scempio) ma anche da autori di libri, solitamente per nobilitare – contro la verità specifica, spesso – secondo un’etica social-patriottica, socio-romantica, di conservazione sociale o culturale (tradizione classica, virtù familiari, valori locali, nostalgia del passato), estetizzante, sentimentale ecc. un contesto, un personaggio. L’operazione è quella di creare (inventare) valori astratti per spegnere le esigenze concrete, per deviare verso il classicistico, il metafisico, il romantico ecc., verso il non concreto i problemi culturali ed artistici. Il provincialismo si appropria di quegli pseudo-valori e li distribuisce senza compiere ricerca, senza veri dubbi, senza storicizzare: il metodo è quello dell’a priori, accresciuto in questi tempi dal soggettivismo lalistico, dalla mancanza di studio. Le contraddizioni fra «calabresità» forte (quella degli stampi tradizionali di fierezza, di forza contadina, di resistenza alle fatiche, di disposizione a essere ottimi soldati) e la «calabresità» debole (quella dei pascoliani sentimentali, umanitari verso tutti i deboli, infantili, crepuscolari, senza patria, facili al pianto) sono spesso molto amene perché un contenuto cozza con l’altro, l’«anima» calabrese è ora una qualità ora un’altra, un frullato solitamente superiore a quello delle altre regioni: impossibile, quindi, spiegare perché si è nel contesto sociale agli ultimi posti e anche nella cultura.
I miti, le nobilitazioni socio-antropologiche, sacre, religiose ecc. sono intrusioni astratte nel corpo storico o letterario per evitare il giudizio critico meditato e razionale.
Il leggendario, il favoloso, l’aeriforme prendono il posto dell’intelletto. Ciò che piace sul piano del gusto (spesso «cattivo gusto») diventa attuale: l’epoca bizantina diventa per alcuni divulgatori il periodo più splendido della storia, si badi, «sociale ed economica» della Calabria; leggiamo un serio storico calabrese, Domenico De Giorgio, vediamo che la regione fu duramente sfruttata dai bizantini, sottoposta «alla rapacità dei funzionari» e che il governo non seppe difendere la Calabria dalle incursioni barbariche ma la ridusse in «estrema decadenza». Nei travisamenti idolatrici dei dilettanti estetizzanti, addirittura prerafaeliti, la liturgia bizantina diventa la «salute» delle popolazioni, i santi bizantini (dei quali si confondono biografie, mescolano fatti e leggende) destoricizzati o imbellettati di sproporzionate virtù terrene.
A dequalificare la specificità letteraria concorrono anche gli innumerevoli disquisitori sul mito, sull’idillio, sul sacro, finti antropologi i quali si ammantano di nobiltà universalia cercando di rendere metafisico il fisico: è il modo per non fare avere peso alla letteratura che è testo letterario e non nuvolaglia. Nella regione manca una critica letteraria fornita di metodo professionale e di gusto moderno; esistono degli studiosi che sono ottimi critici ma la coscienza culturale è estranea alla serietà perché è manovrata dalla coscienza culturale di tipo giornalistico, cioè superficiale, approssimativa, abborracciata. Da qui le incertezze critiche nello studio della letteratura come cultura, del suo spessore culturale.
La Calabria non è centro di civiltà da millenni, è stata sempre periferica ed emarginata. I disquisitori sull’astratto ai quali accennavamo prima intendono ribadire l’inferiorità togliendo alla cultura il vigore specifico che essa ha avuto con la filosofia, con il richiamo nel risorgimento alla tradizione delle virtù regionali e popolari (vedi l’opera di Padula in favore del risorgimento calabrese), con la protesta postunitaria contro il modo iniquo in cui l’Italia era stata fatta a spese delle regioni più povere e maltrattate.
Il cuore delle masse popolari non palpita in Calabria, come ha scritto Pasolini, nella grigia classe impiegatizia delle città burocratiche, e gli intellettuali che hanno operato sempre all’ombra della grande proprietà oggi non hanno minori responsabilità di un tempo per la loro candidatura a porsi al servizio della burocrazia regionale. Da qui la loro tendenza a non prendere coscienza della realtà, a rifiutare il ruolo intellettuale, a fuggire nel mito, nella tradizione, a indorare le età ignobili assegnando valore iperbolico ai semplici termini della sussistenza.
Comunque meglio il tentativo (almeno è un lavoro!) di occuparsi de minimis che la fuga nell’inesistente. Le riviste letterarie calabresi sono tra le peggiori della penisola; ne facciamo cenno perché in esse gli estetismi e le vanaglorie raggiungono il culmine. Si trova di tutto: gli incompetenti scrivono recensioni (sempre elogiative), gli spiriti prosastici scrivono poesie senza avere la minima conoscenza tecnica della cultura poetica, l’inflazione pseudo-poetica genera la degradazione dei valori della poesia. Il poeta è per statuto ignorante e ispirato. Lo stesso discorso è da farsi per la poesia in dialetto, residuo della poesia in vernacolo e del folklore, trattante le bellezze della nostra terra, la nostalgia del passato e del mondo arcaico, del paese ecc., incapace di usare il dialetto come linguaggio poetico. Stiamo parlando del peggio. In Calabria esistono ottimi poeti in lingua italiana e in dialetto dei quali diamo notizia nel Novecento.
La mole di questa letteratura è raddoppiata per i contributi aggiunti. Una più ampia struttura architettonica è stata creata con nuovi padiglioni di maggiore respiro (Jerocades, Conia, Padula, Vincenzo Julia, De Marco, Butera, Pane, poeti dialettali postunitari, influenze di Carducci, Pascoli, D’Annunzio; Creazzo, Giunta, Giovanna Gulli, La Cava, Enotrio, Alba Florio, Calogero, Tropeano ecc.) per rispondere al raccordo con la letteratura nazionale e ai problemi storiografici di questi ultimi decenni.
L’opera era nata nei primi anni Sessanta a Rimini con il materiale bibliografico indispensabile ma con l’intuizione di dovere fare riferimento alla linea di originalità che esiste nella letteratura calabrese che non è dolce ma aspra. Venne fuori uno schema che ha mantenuta alta la linea di originalità e di opposizione: caratteristica della nostra letteratura vera è la resistenza, l’opposizione; storia e geografia non hanno consentito imbellettamenti, umanesimi formali, manierismi, dannunzianesimi. Quando uno scrittore si liscia (vedi Alvaro) subito si scopre; anche se è lisciamento superbo. Perciò la poesia è scarsa, quella vera è popolare o dialettale. La vetta della poesia calabrese è Campanella perché il poeta, solitario, vuole opporsi agli errori ed esprimere verità, identità: così Jerocades, Padula, Seminara, Giovanna Gulli, Luca Asprea, Alba Florio (in Calogero il manierismo si involve nel dolore autentico), espressioni di quella «popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica, […] infantilmente semplice» della quale ha parlato Pasolini.
Quello schema di letteratura nel quale c’erano tante omissioni (volute) ma anche una tensione verso l’esaltazione del creativo e dell’originale è stato imitato, riprodotto, divulgato perché questo era il destino di un’opera che prima non esisteva e che è servita per inquadramenti, lavori di laurea, di ricerca. In una situazione ideologica, culturale, mentale molto diversa da quella di allora, in una Calabria che si è autodistrutta nelle memorie del passato per rispondere ai falsi bisogni il modello è ancora quello dei picchi alti della cultura e dell’umanità calabrese, è ancora la ricerca di originalità nella nostra storia. I «padiglioni» aggiunti sono dei contrafforti all’originalità, sono inviti a non farsi captare dai miti capziosi, dal falso sacro, dal falso poetico. I rinforzi sono le armi morali della vera essenza calabrese.
Antonio Piromalli
Rimini, 25 febbraio 1995
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