X. La lirica del Novecento: Francesco Tropeano, Lorenzo Calogero, Alba Florio

X. La lirica del Novecento: Francesco Tropeano, Lorenzo Calogero, Alba Florio

Francesco Tropeano1 vive la sua principale stagione poetica a Messina quando in questa città si trovarono a vivere in un eccezionale sodalizio Salvatore Pugliatti, Luca Pignato, Giovanni Antonio Di Giacomo (Vannantò), il poeta libraio Antonio Saitta che diventò il benemerito editore di libri e quaderni degli amici. In una città economicamente depressa e viva solamente per l’attività del porto e per quelle agrumarie il fascismo provinciale costituì anche una forma di occupazione per i giovani intellettuali della piccola o media borghesia il cui consenso fu adoperato dalle gerarchie locali mentre i proletari disoccupati partivano per l’Africa orientale a costruire strade o combattere, per la guerra di Spagna. L’ambiente culturale fascista era per i giovani il solo agone che consentiva l’ascesa alle cariche del Partito o alle professioni mentre in altra direzione e clandestinamente operavano i gruppi della tradizione socialista e i comunisti. Negli anni Trenta la città era fascistizzata, inerte nel suo provincialismo carico di retorica e di enfasi: c’era il fascismo dei giovani (non pochi dei quali ebbero notorietà come vincitori ai Littoriali di poesia, di teatro, di dottrina del fascismo) tra i quali si troveranno anche dei frondisti, l’attivismo fascista dei loro istruttori (come Salvatore Pugliatti) il fascismo di Ugo Spirito che in quegli anni insegnava a Messina, quello del clero guidato da mons. Angelo Paino2.

In realtà Messina era una città tipicamente borghese nel suo gruppo egemone dissanguato, nelle sue tradizioni liberali, sociali ed economiche, dal terremoto del 1908. Il vastissimo proletariato era, soprattutto, umiliato, i ceti medi vivevano in una condizione tra infantile e sospettosa, demoralizzati e acritici. Tra i docenti delle scuole medie non mancavano gli antifascisti come Vannantò, Vito G. Galati, Vittorio E. Alfieri, Vito Guzzetta, Stefano Bottari, Carmelo Previtera, Vittorio Lazzaro ecc. mentre altri antifascisti come Nino Pino e il geniale Agostino Buda3 operavano nel continente o all’estero. Il consenso al fascismo era spesso soltanto apparente perché gli eventi drammatici di quegli anni si svolgevano sopra la testa della gente la quale era oggetto di trasformazione politica. La valorizzazione del capitale industriale e l’espansione degli investimenti furono pagati dai lavoratori: lotta di classe soffocata, riduzione dei consumi, riduzione dei salari reali, sfruttamento dei lavori al minimo costo, aumento del divario tra Nord e Sud furono gli effetti continui della trasformazione. Si divulga oggi la tesi di un consenso al fascismo ma si tratta di una tesi falsa: consenzienti furono i grandi industriali, armatori, costruttori, gli operatori economici con le orecchie tese all’armamento militare e all’industria di guerra. Il vero consenso è costituito dagli uomini che lavorano e non dalle piacevolezze della moda, dell’arte, dello spettacolo, dello sport (quasi sempre di propaganda).

Quegli anni di assalto del nazi-fascismo al potere mondiale costituirono l’occupazione smisurata, anche a Messina, della vita privata da parte della politica (effetti del Concordato, del Tribunale speciale, dell’OVRA, controllo di tutte le categorie produttive, dei giovani, delle donne, degli adolescenti ecc.) sicché la nostalgia degli anni Trenta non potrebbe ridursi che alle forme di evasione del cinema, delle canzonette, dello sport, campi nei quali la nostalgia è giustificabile perché si proponevano allora i prototipi dei miti di evasione più clamorosi e di massa del nostro tempo. Ma a Messina e nell’Italia meridionale la vita sociale, economica e culturale, non aveva elementi di protagonismo quanto, invece, di passività, di umiliazione, di frantumazione, di velleitarismo, di distacco fra città e campagna, di esibizionismi ginnico-militari o paraintellettuali.

Francesco Tropeano vive nella sensibilità dimessa della sua formazione interiore, legata alla natura calabrese e al primum poetico dell’infanzia. Non mancano nel manoscritto inedito che ci rimane gli Inni che costituiscono una sezione dell’opera: l’amor di patria è sentito anche nelle strade d’Italia, aspre o veloci, palpito della terra, vibranti perfino al tramonto; nel canto della donna italiana il poeta esalta la giovinezza di una grande primavera della nazione:

Nelle palestre che non sanno il male,
maternità, prepari il tuo domani:
corpi di luce, aneliti di vene
fatte preziosità di vite nuove
I nostri figli li vogliamo sani.

L’Italia è sentita nell’azzurro delle acque, nel verde delle valli e delle colline, nella fisicità naturalistica che suscita il desiderio di una durata partecipe del corpo: «Italia, fa del mio corpo di carne, una cosa che duri, | fammi una cosa costretta alla tua eternità».

Ma negli Inni c’è l’amore per la «campagna solenne e faticosa», per le «vecchie mura» che sanno di terra ferrigna, giganti che soffrono del monotono peso del cielo immoto su di esse, viventi della fiamma del passato, testimoni dei «tempi crudeli» in cui il poeta dolorante più volte si abbatté su di esse. Vecchie mura è uno dei canti maggiori di Tropeano perché il poeta si conobbe di fronte alla loro pietà traendone motivo di risollevamento e di rinascita:

Contro il rosso sangue
raggrumato di cui siete conteste, scagliai
il mio martirio. Impietriva
il mio cuore, premuto fra le mani.

Anche alla terra il poeta si rivolge in momenti di disperazione:

Entro di me il cielo abisso
s’è spalancato: ho paura
di precipitare.
Mia terra, la voce
delle tue mille correnti
mi redima.

Il ricordato manoscritto inedito diviso in sezioni che si richiamano alle parti del giorno (e che si conclude con i ricordati Inni) costituisce il nucleo della poetica di Tropeano nel desiderio di vita come avventura interiore, espansione di sensibilità e come crepuscolo e delusione. La sera, con la sua immobilità, l’odore di pioggia nell’aria, il sentimento del rimpianto inducono «un dolore senza fine amaro». Le statue, sorelle di marmo, sono «faticose forme» corrose che sognano l’alba: ad esse il bambino parlava con «occhi appassionati» nella sua «ansia disperata».

Il mare è altro emblema – con le spume e le alghe nuotanti – dello sfinimento della vita:

Il mare è un tremolìo
di pagliuzze d’argento:
me ne giunge il brusìo
sulle ali del silenzio.

In esso traluce la mutevolezza delle forme e la caducità delle musiche; anche la luna emana un gelido effluvio,

una lacrima salsa
iù dell’acqua del mare
mi rotola giù.

Su tutto il paesaggio e con esso colloquiante domina la psicologia del poeta che si sente un esule nell’incanto del cosmo. Una pena lontana, esistenziale, è nell’animo anche quando il poeta avverte in sé «una luce disciolta», una «supina | tranquillità», e si lascia avvolgere dalla «chiarezza dei sogni». La fissità della sera, l’aria pesante come l’acqua sono simboli di una mancanza di sbocco: «Non c’è una foce cui mi guidi amore, | non ho più confidenza con le cose».

La vita dirotta non è dominabile sicché «il silenzio senza luce | è il mio elemento».

Tra asprore e stanchezza la vita è come un crollo lento, l’anima morde anche il «giovane | scheletro», la sete non può essere appagata tanto vivi sono il sentimento di vuoto, quello di perdizione. La notte desiderata diventa, pur essa, nella sua immensità, un peso, un’impossibile ascesa; anche i giardini notturni – incantati sogni dell’adolescenza – sono sofferenza in quanto dolenti memorie; la notte fa più intensa l’impressione di essere avvinghiati a una rupe:

Signore, dischiodaci. Scaglia
le anime nostre,
come fa d’una rondine caduta
il bimbo buono.
Perché, Signore, mostrarci la luce,
ma tanto lontana?

Fra la realtà e il sogno c’è sempre la solitudine, l’esilio:

Sono come un giovane albero
sul ciglio del baratro
sotto spenti cieli.

Cadenze ungarettiane sostengono il sentimento del vuoto, della frattura, dello sgretolamento; lo stato d’animo diventa preghiera perché ci siano sosta e consistenza (sia pure di silenzio, di pause) per non sentire la paura del mutare e del fluire delle forme. Ma il poeta sa anche che è «fango» la speranza di vita empirica, che chi è in questo fango non merita la morte. Ci sembra questo il punto più alto di Tropeano: la consapevolezza della non-vita, della cecità della finta vita. Ogni retorica è qui caduta e Tropeano scopre gli «orizzonti preclusi», l’«antico carcere», la perfidia del fenomenico e delle illusioni che incantano con «sospiri e sussurri» e «giardini» della notte:

Torbida è l’acqua dove tu ti miri,
anima; ed io dal gorgo non mi sveglio.
Soffre il mio cuore e soffre la mia mente.
Nascono i sogni in me fragili e brevi.

Solamente l’alba – simbolo di nascita e purezza, di ritorno all’infanzia – può dare l’immagine del risorgere della vita e le foglie gialle sul prato «sembrano stelle sperdute | in un verde cielo capovolto».

La fenomenologia paesistica della città, Messina, distesa fra colline e mare offre analogie agli stati d’animo del poeta di angelo decaduto con le ali intrise di fango e ai desideri interiori di ascesa modellati sull’idea della montagna di cui ascolta gli «urli di pietra e di tempesta». Ma più che «filius loci» il poeta è «fìlius temporis», di quegli anni Trenta in cui una generazione che si era mossa con ideali di rinnovamento prendeva coscienza – anche per avere resecato ogni confronto con altri ideali umani – della vita mediocre e umiliata in cui anche le forme dell’esistenza sembravano essere soggette all’offesa che colpisce la maggior parte degli italiani. Tropeano scese individualmente in questo mondo offeso che ebbe in Elio Vittorini il suo poeta. Tropeano scendendovi individualmente non si legò con le forze degli offesi ma trovò nella poesia del Novecento di quegli anni – la poesia essenziale di Ungaretti, Quasimodo – lo stato d’animo di uomo di pena che vede le alte muraglie, l’impossibilità di approdi, l’inautenticità dell’essere.

Nel 1938 Francesco Tropeano, littore di poesia per quell’anno (Littoriali di Trieste) pubblicava una scelta di quindici Poesie (Messina, GUF 1938) in cui il prefatore Salvatore Pugliatti rintracciava alcuni elementi: il quadretto a dimensioni ridottissime e a linee sottili e morbide, immagini visive investite dall’intimo motivo, quadro come scabra xilografia, accordi che determinano il motivo poetico, influenze da Leopardi a Quasimodo e a Vannantò. Il prefatore sottolineava ancora il carattere esteriore della modernità di Tropeano in cui era assente «il tipico tormento stilistico e sintattico della poesia moderna». Tropeano, insomma, apparteneva alla tradizione.

Pugliatti non indicava lo schiarimento di Tropeano che era avvenuto attraverso D’Annunzio e Pascoli. Né indicava le radici psicologiche del poeta formatosi nel paese calabrese e nella città siciliana (una Messina estenuata nella bellezza del paesaggio, nella sua vita periferica). La poesia lirica calabrese fino ad allora era stata conservatrice delle forme classicistiche regionali. La poesia ermetica entrava in quello stesso anno, 1938, in Calabria con Alba Florio di Troveremo il paese sconosciuto in cui per la prima volta nella regione Pascoli appare maestro di ars dictandi e non esteta del proprio sentimento e Quasimodo porta una nuova sintassi ellittica e analogica. Tropeano si schiariva dalla tradizione regionale attraverso D’Annunzio e la sua musica. Eppure nello schiarimento c’era un incanto individuale, forse in ritardo, che portava un paesaggio con fanciulle in fiore, giardini con stille di rugiada, fontane e un lieve urto del sangue: il sentimento dell’amore giovanile come paradiso di speranze. In quell’incanto c’erano una città che declinava dai colli, un’Italia povera di cose, i monti della Calabria e uno smarrimento elegiaco di fronte alla caducità delle intraviste bellezze, dell’armonia sogguardata come nelle fiabe orientali. Questa bellezza aveva una musica muta, solitaria, il poeta era solo tra acque e terre e attendeva il compiersi degli eventi. La magia del paesaggio toglieva i pensieri, prolungava il sogno e l’incanto, una minaccia di rovina si avvertiva da lontano come un presagio: quando l’incanto sarebbe terminato i residui sarebbero stati il sospiro dell’infanzia e il paradiso perduto. L’immaginismo derivava dall’armonia della natura: «Oh il bel volto di lei | molle di pianto alla notturna musica!».

Il primo amore nasce col contorno di rose sui balconi quando la «parabola del giorno e dei pensieri» si svolge in un’atmosfera di freschezza e di suoni, astorica, che sembra promettere avventure

oltre ogni curva d’orizzonti, dove
girano mari e terre
e folti velieri s’attardano.

In quest’atmosfera l’amata è musica sillabata:

Lungamente vorrei chiudere gli occhi
e abbandonarmi
quando accanto mi stai, limpida, e ridi,
ed un ampio stormir canta la sera.

L’amata è presenza pacificante («tra le mie braccia ti farò dormire», «tra le mie braccia sarai alla deriva»), il paesaggio è rasserenante e se non mancano la montaliana «scogliera scabra» e i «ciuffi | d’erbe sfiorite», se l’onda è «triste cosa vivente» e «tra le ghiaie | stridule corre un brivido di schiuma», la natura di Tropeano porta pace:

e, come nella quiete
della notte imminente,
ogni albero pacifica le cime
ai religiosi sonni,
io placo le mie voglie ad una ad una.

Nella sera d’autunno scende «malinconia nel cuore» e l’anima è «simile alla conchiglia dei mari», l’infanzia calabrese ritorna come «antica favola» in cui

Fioriva
sui miei monti lontani la ginestra
selvaggia, errava un odore sottile
nell’aria.

Tropeano filtra musicalmente attraverso la magia dannunziana o ermetica il sentimento d’amore, lascia alla registrazione più nuda il sentimento della solitudine: la vigna deserta nel tardo autunno, il presagio di morte nelle nuvole basse, l’occhieggiare della «volpe raminga», il volo rasente i pali delle ultime rondini in fuga, l’anfiteatro deserto di folla, lo spaccapietre con le mani lacerate «in polvere di pietra».

La vita desistente e umile è l’appropriato paesaggio dei poveri, nota interiore che non giunge alla concezione della scacco e della sconfitta ma che, pure, è consenso al piangere delle cose, al loro essere raminghe e assurde. La pittura nuda, essenziale di quegli anni è il corrispettivo dei versi non cantati. Il mistero delle cose è colto in Tropeano in Statua, il componimento più fermo e solenne in cui l’assurdità degli oggetti è suggellata dal «riso di marmo». Le statue di Gabriele D’Annunzio emergenti nei grandi parchi e simboliche di altro genere di mistero – letterario e nascente dal sontuoso – sono altra cosa.

La statua di Francesco Tropeano nasce dal sentimento di una vita alta che non può più volare e rimane in terra delusa:

Non vedo in te
splendore degli occhi,
né l’arco oscuro delle lunghe ciglia:
se mi allontano, di te mi rimane
riso delle tue labbra di marmo.

Il desiderio di una vita alta di avventure è forte in Tropeano: nasceva dai sogni solitari nel paese calabrese con la sua carica di meditazione, dal clima del fascismo giovanile esaltante le conquiste e l’avvenire. Ma nei versi tale desiderio è un sommesso ottativo o una delusione. In Io che sognai viaggi c’è il paesaggio dello stretto di Messina e del borgo di pescatori, il sogno persistente e non ancora avverato:

Se diventasse quella vela bianca
ala ai miei sogni, e a spiagge
non conosciute mi portasse il vento.

In O donne lontanissime l’atmosfera serale carica di mistero crea suggestioni di vaghezza musicale

(Ora che l’aria imbruna
e che la calma sera di estate
accende stelle in cielo e lumi fiochi
per le vie solitarie
della montagna)

ma per esprimere che non si può rispondere alla luce alterna del faro e che nulla può allontanare la rotta della vita dal proprio destino.

I sogni rimangono tali e soffocati nel cuore perché le speranze sono cadute:

O donne lontanissime, che un giorno
grate agli occhi ci foste, ora il ricordo
è una voce velata.
Curvi da mare a mare
cieli folti di stelle
si inabissano a Dio.

Rifugio rimane il ricordo dell’infanzia calabrese, della casa tra gelsi e noci tra cui il bambino affidava l’aquilone al vento:

[…] Tengo un filo sottile
che non tocco né vedo
ma nell’aria e nel sole
è un ricordo di aprile.

In questa probabilità di giovinezza delusa si affaccia l’ipotesi di una trasvolata, di una lunga avventura al termine della quale resterà (Coro per una trasvolata) la quiete dell’appagamento ma, anche, il rammarico della brevità della giovinezza. Le poesie fin qui ricordate sono ristampate nella miscellanea di Poesie (Messina, GUF 1941) che comprende componimenti di altri cinque poeti giovani. Tropeano vi aggiunge altre poesie proprie sul duplice registro: 1) delle immagini scabre (il rovo selvatico che «si impruna | tra rocce») in cui la vita si addensa; 2) delle immagini musicali che avvolgono il mistero delle cose, risucchiate e inconsapevoli:

Per gli orti solitari, nell’ombra,
improvviso il coniglio si rintana,
le fontanelle querule
sotto il cielo lunare
inargentano gli orli dei sentieri.

Il poeta vive tra il desiderio di elevazione e la consapevolezza della brevità della vita, della casualità. Nel colloquio con la madre dice:

siamo gocciole d’acqua
che lasciammo la nuvola:
il vento ci sospinge,
il fiume ci trascina.

Al passare dei fiumi ogni giunco si piega, ogni dura pietra si assottiglia, l’uomo è «macchia scialba | nell’ombra folta», ascolta il venire dell’acqua in cui confluiscono tutte le gocce alle quali il breve tempo dà l’illusione di vele e terre d’avventura fino all’ultimo richiamo in cui egli resta circonfuso e assorbito:

solitamente
uguale pena attorce
l’erbe
e le serene foglie
dei pazienti alberi: rovina,
scabra maceria, il cuore.

E la pena di vivere dei poeti degli anni Trenta che Tropeano sente attraverso lo schiarimento dannunziano. Si sente anche la lirica alessandrina e, nonostante qualche accenno montaliano, la musica interiore richiama la tradizione. Il poeta è mediatore della tradizione con qualche visibile congiungimento con Alba Florio («Ora che in poco amore») soprattutto quando il passato è dato come perduto e il tempo segna cose e persone: «ogni giorno si stampa sul tuo viso […] | dolorosa negli occhi e già sfinita […]».

In Alba Florio c’è il potente segno artistico dello scacco; la poesia di Tropeano corre su un crinale di tradizione e modernità, c’è sempre una lieve sensualità, assorbita nella contemplazione e nell’incanto:

penso ai tuoi baci
che avranno sapore marino […]
Le tue ciglia marine
componga a dolce sonno
il mare fluviale, che si imbianca
di sparsa luna.

Ma l’altalena di Tropeano con il patire della vita è continuo; giardini sonnolenti «scontano» la necessaria estate, l’edera «intorpidita» si adagia, il cuore ha «aridità» di macigno: «a te piange una voce | che secca erba ricopre».

Anche la donna amata patisce nel giro delle atmosfere come «docile canna» o «fluviale giunco» che oscilla ai moti dell’aria. In questo neocrepuscolarismo della vita povera la donna è trasfigurata, sollevata dalla pena che soffre con le cose, diventa intangibile. Essa è ormai in Vento l’opera tua scompiglia simile alle creature di Lorenzo Calogero, il poeta che negli stessi anni, sotto il segno dell’ermetismo e in desolata solitudine, nello stesso territorio, prefigurava le immagini pure della futura poesia di assoli:

Le tue limpide mani
e i diafani diti
muove dolce desìo
di ricomporre una rosa disfatta.
Soave pena gli occhi ti fa chiari
e ridi malinconica […]
Guardi le disperate
foglie dei grandi ulivi,
che scolorano al vento,
e il ciel, basso, che incombe
in valanghe di nuvole.
Odi gridar tra le rocce le acque
martoriate dalla piena, e ascolti
il pianto roco delle gru per l’aria.

In questi versi non c’è lo sprofondamento dell’essere nell’ignoto né l’arabesco prezioso e deeadente di Calogero né il buio della morte di Alba Florio (l’uno e l’altra vissuti in solitudine) ma c’è lo schiarimento (attraverso la civiltà letteraria novecentesca del milieu messinese) che indica la consapevolezza di appartenere alla lirica nuova che ha come centro il sentimento della vita depredata innestato su una irrequietezza tendente all’armonia sempre periclitante e raramente componibile. In Alba Florio e Lorenzo Calogero l’armonia è infranta per sempre, le illusioni non esistono.

Quella di Lorenzo Calogero è poesia di uno scacco esistenziale in un determinato momento storico in cui Calogero non ha trovato le condizioni di società e cultura per inserirsi nel mondo. Calogero ebbe, dei grandi calabresi che lo hanno preceduto, il sentimento dell’assoluto, della giustizia, in altra situazione ontologica e gnoseologica, ma tendente anche in lui al platonismo, alla metafisica intellettuale e sentimentale. Ci pare che sia ormai il tempo di precisare i termini dello scacco umano di Calogero facendo tesoro di quello che, tra i numerosi critici, taluni hanno sottolineato. Un’unità al di fuori del magma alluvionale delle migliaia di versi di Calogero non è possibile ritrovare ma il carattere dei mosaici e degli arabeschi, della musicalità incomparabile e dei contrappunti di stridori e tessuti alogici di parole è possibile. Sergio Vellitti osserva che luogo e tempo di nascita hanno condizionato il libero svolgimento dell’uomo e del poeta e l’osservazione, al di là di ogni provincialismo, ci pare utile per storicizzare il poeta e per non farlo considerare soltanto come un semplice epigono dell’ermetismo. Il ritardo certamente esiste ma quanto dell’arcaismo calabrese ha costituito la trama delle affermazioni assolute? Sinisgalli ha scritto che l’ermetismo fu coltivato fuori «dei grandi comprensori della poesia ermetica e con un ritardo di fase che gli ha permesso, quasi per effetto di un trapianto, di raccogliere fiori e messi sorprendenti» ma manca lo studio sul rapporto preciso con i testi dell’ermetismo italiano e straniero.

Le prime intuizioni dei critici sulla rottura esercitata da Calogero nei confronti della tradizione e dell’equilibrio classico sono vere: Calogero infrange il nucleo etico e formale della cultura classica intesa come armonia di ideali, come misura interiore, come eticità che sprofonda nel passato della Magna Grecia o si collega alla tradizionale concezione della famiglia. Pascolismo, carduccianesimo sono da lui sorpassati. Per antitesi, e solo per tenui tratti, Calogero si potrebbe avvicinare al concetto di eroismo individuale di Vincenzo Gerace desunto dal romanticismo germanico, di quel Gerace che unico in Calabria fin dal 1923 faceva conoscere, anche se a modo suo, il pensiero di Michelstaedter sui mutamenti delle cose che determinano le lacerazioni e le distruzioni delle cose stesse attraverso il divenire. Anche se la soluzione estetica è in Gerace conservatrice, restauratrice, il cittanovese esprime in L’ospite ignoto la deficienza in sé che è la vita, l’impossibilità di trovare un qualsivoglia appagamento

Il filo di Gerace collega Leopardi, l’assoluto romantico, motivi esistenziali del primo Novecento ed è un simbolo, pur con la sua soluzione classica, della crisi del classicismo e delle nuove tensioni novecentesche. Calogero coglie l’oscuro esistenziale in modo disperato; simbolismo, surrealismo, ermetismo sono le spoglie del dolore fatalizzato nell’irrazionale, nel subconscio, nei fulgori e nei frammenti della poesia. Realtà, storia sono fluire del nulla senza finalità. Definizione dei caratteri della poesia e spiegazione culturale e sociale di quella poesia sono le tendenze principali della critica la quale deve, però, ancora precisare i più autentici motivi della poesia di Calogero e, anzitutto, la qualità dell’elemento originario del poeta.

Calogero si avvicina immediatamente al terrore dell’essere e alla frantumazione. Gerace, in sostanza, rimane un punto di riferimento in quanto coscienza esistenziale eroica che cerca di oltrepassare il limite dell’ignoto. Alba Florio – che di Calogero è parente per parte materna -, d’altra parte, canta le distruzioni cosmiche, le nubi di silenzio che si diffondono sul mondo devastato, la vita come esilio, limbo, vuoto, notte. Nello squisito frutto artistico la poetica ermetica dissolveva la psicologia in poesia, scavava nella parola depurandola, filtrandola sicché la voce elegiaca e dolente si veniva svolgendo su un registro lessicale e fonico di vera originalità.

Ma la Florio nasce alta voce lirica storicamente definita e chiarissima, voce nuova che interpreta modernamente – come nel Novecento non era prima avvenuto in Calabria – la morte, il mistero la devastazione cosmica, l’accettazione della sofferenza, il «perdono di esistere», la speranza di una ricomposizione dopo la morte nell’essere dal quale proveniamo.

Il mondo della Florio si matura in un ordine stilistico, in una misura mirabile aderente alla tecnica della poesia ermetica italiana. Calogero è laterale ed estraneo alla sensibilità del rientro in un ordine, egli vede anzitutto una lacerazione di insanabile angoscia, una sconfitta intima senza approdo, ha la visione dell’essere come disordine dell’essere che fa piovere contraddizioni; la sua espressione è lontana dalla logica e dalla narrativa, è iterativa – conforme allo stato psichico fatto di frammenti, alla scissione dell’io – come ribadimento continuo delle antinomie della cultura e della società. La realtà è morta per Calogero e da quella morte nasce la letteratura come solo elemento di relazione con la morte della vita presente. La condizione originaria non sottende una filosofia diversa dallo stato stesso di frattura, di annullamento, di sgomento di fronte alla caotica fenomenicità dell’esistente. Possono esservi diversi gradi di consapevolezza del disordine e dello squilibrio ma occorre riferirsi sempre all’intuizione originaria, in séguito patofobicamente svolta sulla linea romantica o decadente di Novalis, Verlaine, Rimbaud, Campana. Questa condizione è correlativa a un ambiente senza sbocco sociale, all’isolamento che caratterizza la sua vita dopo la laurea in medicina, ai tentativi di mettersi in contatto con la cultura fiorentina, alla diaspora che lo sospinge – come nella storia della sua terra aveva sospinto tanti e tanti intellettuali in paesi lontani alla ricerca di un punto fermo e di una certezza di vita e di lavoro – da un luogo all’altro.

Dall’isolamento derivano i tentativi di far pubblicare i suoi versi da Einaudi, i continui viaggi, le lettere a Betocchi, Bargellini e, poi, a Sinisgalli. Questi intendeva subito il legame di quella poesia con la solitudine, la «dedizione disperata e mostruosa» alla poesia durante «venti anni di vita oscura, senza amici, senza complici», intendeva bene nella premessa a Come in dittici (1956) l’idea dell’essere come terrore, come catena di eventi fulminei, rotti, casuali, la tecnica poetica dell’arabesco, sostanza spirituale di quei versi colti, difficili, in fantastica crescita, scritti quasi in una «stato di estasi».

Nelle dichiarazioni di poetica premesse alla raccolta Parole del tempo (1956), che comprende anche le poesie dal ’31 al ’33, Calogero scrive che la «luce del passato» può rischiarare la vita e che un artista può raggiungere una limitata verità per mezzo delle espressioni, delle immagini, della parola che è «particella di vita», cioè comunicazione. Infatti si precisano le immagini che costituiscono l’aspro materiale autentico della sua vera ispirazione, la «forza di fiumana», la «potenza d’abisso», i «piani sconvolti», l’«incubo sotterraneo», i «misteriosi viaggi lunari | funebri di strane comitive» che rappresentano i primi segni delle forme del disordine, con qualche sprazzo di equilibrio musicale di derivazione ermetica:

Con mani levate in alto
sempre tento per cieli capovolti,
quelli fra cui trovart
è gioia se per un istante tu ti volti.

Al di là dei richiami letterari ai paradisi perduti, nella prima raccolta troviamo la disperazione di un mondo aduggiato da un «cielo di piovra», il peso di un maleficio antico, di un peccato, di un esilio ma anche il desiderio di una vita pura:

Io sono uno strano mendicante
che chiede amore e parole,
sono un solitario emigrante
verso le terre della luce e del sole.

Pascoli, crepuscolari, strapaesanismo fiorentino mescolato all’ermetismo, Ungaretti, Betti sono gli antecedenti delle prime prove in cui si affacciano, calogeriani, il «tanto rovinoso mare», il «denso viso | del Vero», le «aspre righe del Vero». Intanto il paesaggio calabrese della rupestre costa del Tirreno fronteggiata da scogli e vulcani nell’arco solenne tra Sicilia e Bagnara, immagine di cataclismi remoti e di apocalittiche rovine, inteso fuori del tempo e della storia, diventa per Calogero simbolo di una forza senza confini in cui l’uomo è pietrosa solitudine impotente contro le piogge uraganiche e l’incomposto franare delle rocce. Il poeta vi appare un antico, morto «duemila anni fa», fra lui e il «popolo di uomini leggeri», i viventi, è una immensa lontananza, le cose affiorano «da un oceano sommerso», la ricerca è quella di una «realtà oceanica». Gli eventi distruggono le cose, la morte è il componimento più duraturo che ha la vita, le forme che si dissolvono inducono un sentimento di dolore. Gli eventi «hanno la faccia del vuoto», da essi ci si rifugia nella «scalinata dei monti» dell’«immensità» ricorrendo al passato defunto, ai «paesaggi arsi della storia». Simbolo dell’essere sono l’oceano e l’uragano che dirompono gli eventi:

Tratteneteli con mano,
che non abbiano a ferirmi il cuore
come si ripete sin da millenni
in questa grigia scarpata del mondo,
calpestarmi la mano con oltranza
che silenziosa opera nel tempo.

Nei versi della raccolta Parole del tempo (1933-35) il poeta vagheggia l’amore vero e assoluto e c’è la documentazione psicologica e letteraria dell’isolamento dell’uomo il quale finisce per pascersi di sogni e di immaginazioni: L’amore per la contemplazione e il distacco dal reale inducono il poeta ad opporre alla contemplazione «l’urlo delle passioni», a coltivare il contrasto, a pascervisi accrescendo il proprio isolamento e la propria fuga nei «vasti silenzi» carichi di sgomento e di «gridi gelidi».

Nelle successive raccolte (Ma questo…, scritte fra il 1946 e il ’50 ed edite nel 1955; Come in dittici, composte tra il 1954 e il ’56 ed edite nel 1956; Sogno più non ricordo, composto tra il 1956 e il ’58 ed edito nel 1966) l’intuizione filosofica che più comunemente si avverte in Calogero non è tanto quella della drammaticità dell’essere quanto quella della molteplicità dei fenomeni; o, almeno, la molteplicità è la rivelazione continua della dispersione; la drammaticità dell’essere è un presupposto e nei versi del poeta la fenomenicità delle cose trite e vane si intreccia e si aggroviglia in un disordine in cui traluce, in una sorta di fuoco verde, di acque e luci glauche, una speranza che è subito affondata perché è già tramontata, è del passato, è stata distrutta dalle convenzioni o dalla brutalità dell’esistenza. Ma questo dolore di Calogero scivola in un acquario o in una nebbia, tra ali battenti, fili avvolgenti, fiori dormienti, relitti, grovigli; il dolore tende allo spegnimento più che al diroccamento:

Fra baci densi e deserti una bufera
non più veduta era e dentro
isegnata era una lacrima leggera.

La tragicità della dispersione fenomenica è già passata attraverso la letteratura dell’ermetismo e Calogero registra le innumerevoli disintegrazioni, le false apparenze, le combinazioni assurde. La sconfìtta è accettata, tutto il lungo canto di Calogero è la catabasi già avvenuta, la stasi nella sconfitta, il naufragio continuo dopo l’approdo iniziale in un irrazionale che ha consumato i confini tra la realtà e l’apparenza. Non pare che in Calogero operassero direttamente Freud, Marx, Nietzsche ma la letteratura della crisi – collegata con quella romantica e decadente – la quale ha fatto corpo con i dati psichici e patofobici del poeta. Fu chiaro a Calogero che la realtà è appresa da noi attraverso i mezzi di trasmissione sociale i quali la attutiscono nella sua assurdità e nelle sue contraddizioni ma lo stato interiore non consentì a Calogero di essere consapevole, filosoficamente, del carattere ideologico della nostra visione della realtà e di approdare alla scienza e alla ragione (le cui certezze, del resto, egli poté vedere condizionate dalla storicità); Calogero – e sarebbe importante ricostruire il processo – approda non all’essere nella sua presenza ma all’essere che nasce e muore, omologo al nulla in quanto diviene per morire. L’essere come debolezza, erosione, coincide con alienazione e nevrosi, perdita delle certezze. Attraverso questi motivi di origine heideggeriana Calogero non giunge al nichilismo eroico bensì alla pietas verso il vivente e il vissuto, all’accettazione della morte come destino dell’essere.

Nelle raccolte indicate – che comprendono (se la cronologia è esatta) la rottura del fidanzamento, l’aggravamento delle condizioni di salute, la pleurite, il definitivo ritiro a Melicuccà, il ricovero in una clinica per malattie nervose, il secondo tentativo di suicidio – la dialettica interiore calogeriana si muove tra distruzione-disordine del reale e tentativi di ricomposizione. C’è una frattura iniziale che fa intuire lo scacco dell’essere e delle relazioni, la vanificazione delle forme dell’apparenza quale frammentazione dei fenomeni alla deriva e loro movimenti larvali. Tutto ciò avviene, nella poesia, attraverso la letteratura, il solo mezzo per avere conoscenza di sé, del disordine, per spiegare se stesso in immagini e figure, per contestare realtà, tempo e storia ma anche per esprimere presentimenti di risveglio, affermazioni di uno stato superiore o diverso dell’essere e del mondo, per inventare nuovi moduli letterari individuali – non raramente utopici, paradossali, ma da spiegare sempre dall’interno di questa condizione – alternativi allo scacco, alla emarginazione. La letteratura è, così, testimonianza del rapporto con la realtà delle contraddizioni, è tentativo di smascherare gli inganni dell’essere, è documento della dilatazione dell’io nelle sue tensioni verso la schizofrenia e la scissione della personalità.

Tutto questo studio, di raccordo tra dialettica interiore e letteratura, tra letteratura e forza visionaria, cultura popolare adombrata nella descrizione di elementi del paese e del raccontare da parte delle ragazze, è ancora completamente da fare. Ma anche l’intero sistema formale del poeta è da studiare; fino ad ora si sono dette cose generiche collegate con lo scacco esistenziale di tanti altri poeti ma la specificità di Lorenzo Calogero è da studiare. Dal punto di vista formale sono da esaminare gli elementi del sistema: le ripetizioni corrispondenti allo sterminato disordine fenomenico, l’esame semantico delle parole che sostituiscono i contenuti al di là di ogni esplicitazione logico-sintattica, le orchestrazioni dei colori e dei suoni, il ritmo del significante come espressione della forma interiore della visione (il parlato, l’assolo, il confidenziale e i loro toni), i ritmi irradianti miranti a rendere l’inconscio, i diversi piani espressivi, la sintassi, la metrica, la musicalità come elementi che mirano a eludere il reale e ad attingere una unità, gli aggettivi che chiariscono gli stati psichici, i colori che sono relativi, di volta in volta, agli stati psichici. Si è anche parlato acriticamente dell’universalità di questo poeta ma non sono state studiate le idee, la poetica, le fonti culturali, l’ambiente di Melicuccà, il linguaggio, i livelli culturali, ecc.; si è ripetuto, invece, qualche slogan più o meno banale: «reale temperamento poetico» (Montale), «autenticità e nobiltà del suo messaggio» (Caproni), «altezze degne di Novalis, di Nerval, di Rilke» (Vigorelli).

Dai primi versi di Ma questo… il mondo di Calogero appare di colore delicato e cilestre come un acquario, le forme si muovono snelle e trasparenti in un’«aria diafana», in colori d’alba, ultraterrene presenze, quasi angeliche; veli emersi sui vulcani, nuvole che dormono, «fili nivei erosi» sono le immagini che testimoniano una fisicità pura e delicata a cui corrisponde una misteriosa e segreta presenza, una lievitazione impercettibile di sostanze che vivono in un silenzio in cui si coglie «l’erba prima della vita rara», delle «cose prime». In questo quadro fisico e psicologico di tremori e nascimenti i versi di Calogero diventano filigrane di pitture, tavole di elementari presenze naviganti in una mutevole composizione. Rarefatte presenze esalano da un notturno paesaggio marino:

Ritorna il bivacco
su la dardeggiante cruna
e la marea come un’alta cima
asciuga lo scirocco
sopra una ventata calda
di cenere bionda e bruna.

La donna appare col viso di cenere brizzolato dalla marea (una delle grandi trasfigurazioni calogeriane), verdi steli fioriscono dentro la sua mano, i suoi occhi e il suo sorriso navigano nel respiro della mezzanotte, nella sua gota trema «la grande quiete dell’Orsa maggiore». Quasi sempre il processo ideativo delle immagini nasce in Calogero da una trasfigurazione nettamente antirealistica e corrisponde alla perdita del concreto, alla desistenza, alla rinuncia, alla vita del sogno: «questa estatica distanza | ma non tempestiva più per riprenderti» è il dato del dolore da cui nascono le immagini delle cose lievi, levigate, vaganti come ali, strisce «in un turbine». Le parole di questa immaterialità sono vele, ali, riga, linea, filigrana, sfilacciarsi, vena d’aria, ecc. Esistono solo fili, profili come ombre di cose. Non c’è cosa che si possa dire o fare («Non dire», «Non vale», «Non era», «Da te rifuggo», «Non mi resta», «Non giova più»). La desistenza, l’assenza, l’esilio ci riconducono alla poetica ermetica di una generazione precedente. Infatti Calogero in Come in dittici, nel profondo magma che è nella sua coscienza, coglie moti impercettibili e li segue con precisione capillare come se portasse a termine un esperimento, come se dipingesse con straordinaria cura; in tal senso l’arabesco è precisione tecnica, è lama che affonda nella materia per estrarne particelle infinitesimali in effervescente movimento, l’opera del poeta confina con quella dello sperimentatore. Egli si rivolge spesso a una donna della quale non si vede il volto o alcun contorno fisico bensì un colore, un impercettibile tono:

Te perduta, non sento gioia più viva
che quella di starti seduto accanto
come un ricordo. Così, come ombra, ho murato
una vigna in quel poco spazio che ode
l’alito verde cupo del biondo corpo lento che spiga.

Dell’interiore magma sono registrati i segni in riferimento agli accadimenti della vita e delle stagioni o alle ipotesi che si verifichino determinati fatti («Se chiaro», «Se presto», «Se tocco», «Se muta», con innumerevoli esempi di registrazione di avvenimenti). Si direbbe che a questo punto la poesia di Calogero non possa avere evoluzione tanto monocorde è la tecnica della registrazione degli arabeschi, tanto frequenti i «nessi incredibili» di cui parla Sinisgalli.

Nelle tre raccolte non mancano le immagini relative alle forme del disordine:

Una rupe di silenzio sulle cime del dolore immoto
come un sasso si sgretola su cui si consuma,
rovina e frana l’erba del tempo
e vagano mani ombrose.

«Le apparenze non durano», incombono «tenebre slogate», il ghiaccio è dovunque simbolo di morte, «uccelli audaci dalle ali voraci | sulle spine bucano la quiete del sonno», «paesi persi del tempo | in una luce che li smorza gemono | in una vana rincorsa»; nella fenomenologia delle cose staccate dalla loro origine i fatti generano il sentimento della pena di vivere:

Divelta
a una fontana è un po’ di acqua fatua
vana e sono arsi gli spazi
esili dei colli, grigie le foglie
nell’aria che si allontana.

La situazione poetica si svolge solitamente negli effetti del disordine e nella ricomposizione. Quest’ultima ricrea le forme ideali dal tritume dei fenomeni, dai guasti, dallo scacco esistenziale. Lo spazio infranto si ricompone in

una meravigliosa uccelliera
dove a un nido, ad un bacio ignorato
fluivano meravigliosi i fiumi.

Delle «cose prime» possono avvenire «pallidi ritorni», possono anche avvenire ricostituzioni di forme perfette, geometriche, ideali, che un tempo erano i termini della felicità e dell’unità: il viso femminile, la «donna snella», l’acqua come persuasione al ricordo, i fili d’erba come ricostituzione del passato: «Acquatica è la corrente che presto scorre | sulla terra e ti salva».

La ricomposizione avviene come incontro con la leggerezza:

Ciò che hai amato
in una piuma si screzia, nel silenzio
di vetro folto ondeggia
e risale timido nelle tue mani.

Ovvero quando il sogno si identifica con la realtà:

vidi i nostri sogni infiniti,
taciti infitti nelle cose, che risplendevano
nel tuo sonno d’aria
variopinti come le rose.

Nella scala dei colori tendono alla liberazione il cerulo, il celeste, l’opale, il roseo glauco, l’oro; funzione liberatoria hanno le sinestesie alito biondo, odore niveo, iridescenti baci.

In Sogno più non ricordo lo stato interiore è quello di prostrazione, di rassegnazione, di dolore quasi contemplato negli accadimenti fisici; la tecnica appare ormai la dominatrice attraverso l’estrema attenzione all’espressione ma spesso il gioco verbale delle allitterazioni, delle assonanze, dei richiami musicali scopre l’eccesso della vanificazione della realtà nella musicalità. Non si trattava di un processo innovativo sperimentale in cui si potesse riconoscere il rapporto tra innovazioni culturali e strutture del mondo in cui si vive, l’antirealismo di Calogero non ha nulla a che veder con la polemica del neosperimentalismo e della neoavanguardia contro le strutture realistiche, la cultura di Calogero era di altra epoca; strutturalismo, semiologia, gli sono del tutto estranei; egli tenta di allargare l’area semantica del suo tardo ermetismo, di dare anche una base fonologica al-l’antirealismo con i suoi bizzarri giochi di assonanze, di ritmare con essi la vanificazione del reale; era la grande operazione compiuta da Pascoli sul materiale della tradizione poetica italiana; ma Calogero non aveva che un povero materiale consunto e lacerato da grandi eventi storici e sociali oltre che culturali e la vanificazione del reale da lui compiuta sul piano linguistico si riduce a giochi verbali casuali e non sorretti da una finalità; si tratta di una manipolazione personale del proprio materiale come in scialba alba, perdeva | o perdurava, erratica estatica, ratta rapita, dirada ruvida, agri fili del trifoglio, casto canto, tanto tonda, acceso accuso, oche secche, la turba è tarda, com’eco ti dico, ora era, dentro l’antro, caro caso, chiara chioma, caro coro, cupole di nuvole, moti di monti, una rupe una nube, desta, che mi resta, sopiti i sospiri, gregge eleggi, calde-caddi, suono del suo sonno, linea calma colma, fioco come un fiocco, squillo | il tuo squallore, accurato arcuato, le trecce delle rocce, ferreo fumo fermo, prima pruina, naviga-naufraga, ecc. Erano gli estremi tentativi di consolidare come poetica i residui dell’ermetismo, una operazione di retroguardia perché dietro di essa era la cultura letteraria edestetica dell’Italia di anteguerra. La tensione culturale è, infatti, quella di una opaca rassegnazione.

Chi legga con estrema cura i versi di Calogero troverà in essi, fra le altre cose, un’attenzione particolare, fasciata dalla pietas verso il vivente che perisce, alla povera vita dei paesi della sua regione. Gli umili oggetti – dall’arcolaio alla cresta del gallo, alle valli, ai sentieri, ai vasi da fiori, alla panca, ai boschi, alla salvia – vi sono ricordati, vi hanno posto ragazze, tagliaboschi, animali (pecore, capre, caprioli, galli); il paesaggio vi ricorre con le sue linee precise o deformate, a seconda degli stati d’animo, paesano, marittimo, montano. Ciò va ricordato citando i Quaderni di Villa Nuccia (che comprendono i componimenti del 1959-60, composti quasi tutti nella casa di cura ed editi per la prima volta nel primo volume delle Opere poetiche) in cui si avverte il distacco dall’impassibile registrazione, il riflesso di una realtà di sofferenza, la malattia e l’amore verso una persona umana. Sembra che in questi componimenti sia una ripresa di motivi ancor crudi della prima giovinezza e un ripiegamento su una più circoscritta condizione umana, meno astratta, della quale il poeta prende coscienza.

Qui Calogero è fuori dalla confusione e dall’incertezza senza mutamento dei versi precedenti, fuori dalla caotica immaginazione e manifesta con più immediata energia umana e stilistica la propria disperazione per la sconfitta, per il fallimento; la consapevolezza della malattia attenua la letteratura, l’immaginazione arabescante. I motivi dell’amore angelico e senza speranza passano da una lirica all’altra ininterrottamente, la poesia tende non all’indugio dell’immaginazione ma alla trasfusione del desiderio di colloquio. Si avverte la constatazione che nulla è più possibile, che le cose che potevano essere avvenute non sono avvenute e da tale tono si leva quello dell’autodistruzione e della morte. Eppure quella figura umana dell’infermiera umana seduta accanto al letto «come un idolo scolpito è – ha scritto Roberto Lerici – la nuova incarnazione del suo amore per la vita». Certamente il linguaggio è diverso, più chiaro e limpido, il dolore è contemplato più da vicino, con maggiore crudezza e senza speranza, in un’atmosfera di incanto non spezzata da capillari registrazioni:

Dorme
chi ti sembrò più bella
e si confonde cogli aliti
del fiore del limone, perciò vedesti
anche sicomori altissimi

o «tu eri la ragazza bruna e soave | come un effluvio che viene da ponente. | Tu eri biancheggiante come neve», «Hai di nocciolo la luce | del monte verso cui fievolmente inclini | o rispondi», «Tu avevi la lievità delle tue ciglia | sparse», «Tu levigata eri nella tua veste dolcissima | nell’azzurra chiarita dello spazio | o in una veste amata, | perché di tutto in te tutto ritrovo, bianchissima!». Pur nel ritmo continuo della poesia, impropriamente chiamata ininterrotta, le zone prosastiche, tardoermetiche, sono più ridotte e maggiormente risplende l’accentuazione lirica, la ripresa di un ritorno che è nella tradizione italiana. Al terreno di crescenza di questa poesia calogeriana appartiene il desiderio di assoluto che sembra avere superato la fissità e l’immobilità della registrazione ovattata della molteplicità dei fenomeni, per innalzarsi ormai a vera contemplazione. La ricomposizione di un mondo ideale dal disordine era già avvenuta sporadicamente per opera dell’amore. Ricordiamo:

erano i tuoi ginocchi
nei silenzi che squillano;
odi un notturno idillio marino
che sale ai tuoi piedi […]
Lucentezza di cigli,
di iridi variopinte si piega
dal grembo di una rosa
come sul tuo bel viso che odora […]
Le bocce
fioriscono dentro la tua mano
o uno stelo verde di un fiore
da un vaso di geranio

Adesso il dolore umano è più vivo:

Questa orribile pena
nel fango ho coperto
con strazio questa orribile pena
è una deserta fanghiglia
e simili fa alle altre
le città dell’età dell’oro
come una notte leggera […]
Sono un uomo che non ha domani
e la noia è simile alla mia […]

L’immagine femminile si accampa in un cielo puro e perduto:

avevi dei corpi tersi un respiro senz’ali […]
passò simile a se stesso un misterioso accordo,
un ricordo […]
essa violentemente
apparve e portava in mano un papavero
o i cocci di due vasi rotti.

La storia individuale coincide sempre più con la vicenda interiore del sentimento amoroso:

Ma non saprò dirti addio.
Tu conoscevi lo spazio, il cielo stellato
grande sulle tue tempie fini
e conoscevi nell’azzurro l’abitato […]
Non mi nasconderò nel papavero
del tuo stanco cupo volto […]
Ti tocco per un tuo lembo
e già tu sei vana […]
Tu eri vestita, con aria, in cenci
come così spesso ti sogno […]
E io ti porgo una lettera
sulle mie dita […]
E quel che mi rimane
è un poco di turbine lento di ossa
in questo orribile viavai
dove è alzato anche
un palco alla morte.
Ma io mi sento sempre spento […]
Ed io ho amato un fiore di biancospino
nelle tue giunture, nelle tue ossa,
nelle aperte contrade.

Il poeta è consapevole di recitare un «lugubre assolo»:

Forse parlo da solo e con me solo […]
la tua,
la nostra ultima fragranza s’assola
al fioco chiarore della notturna lampa
dove non vidi attingere che una sola, te sola,
alla notturna brezza.

Il desiderio di autodistruzione diventa sempre più intenso, la mitologia ermetica è vinta dal contatto con una sofferenza continua e più non esiste il provincialismo delle ripetizioni senza uscita:

Forse io ora esulto
ed imploro morte a piene mani […]
La morte
oh sì
la morte m’innamora
e la vorrei condurre a quel sito
in cui ella come amata amante
mi ama ancora […]
Tu come un giunco fresco
un narciso hai messo alle nari.

In questi Quaderni è la maggiore consapevolezza artistica di Calogero il quale rimane un esempio importante, nella poesia del Novecento, del modo in cui una poetica, quella ermetica, con esiti tardivi, ha fatto aprire alla luce della poesia un temperamento acceso inizialmente da una tensione drammatica e mistica rare. In Calogero l’irrazionalismo fu l’opposizione di un mondo tradizionale al contesto razionale e tecnologico della nuova cultura; il linguaggio ermetico – non certamente il più adatto a esprimere l’irrazionale – fu il linguaggio dell’opposizione calogeriana. Pur con questi ritardi e questi limiti (legati alla condizione di una cultura periferica) Calogero esprime lo stato dell’intellettuale isolato che vorrebbe manifestarsi intellettuale in armonia con la verità, trova tutto sbarrato e cade nella sconfitta. Ciò avviene negli anni del miracolo economico: per Calogero c’è una identificazione con la vita e l’immobilità del paese meridionale e perciò egli parla di silenzi preistorici, di dolore incantato, di cicloni, di lampi raggrumati. Con le sue premonizioni pessimistiche Calogero rese assoluto il passato o il prolungarsi di una evoluzione che precede la nascita. Ci pare che sia ormai necessario studiare severamente Calogero, potando molta sua produzione di consumo tardoermetica, esaminando la sua figura di intellettuale, le sue idee, i condizionamenti dell’ambiente calabrese, scegliendo – infine – una antologia delle sue liriche compiute (e compiutamente belle) tra le moltissime anche informi che ci rimangono, commentandone le situazioni, le immagini, la lingua: ciò è più utile delle proclamazioni di grandezza e di universalità e pone le basi per un giudizio storico e artistico sulla sua poesia. Allo stato attuale manca la possibilità di un esame sistematico dell’attività poetica di Calogero ma manca anche la possibilità di dare un giudizio, integralmente, su un determinato periodo dell’attività o di confrontare i diversi momenti. Un determinato periodo può essere studiato integralmente quando è corredato dalle varianti e, soprattutto, dalle meditazioni estetiche sincrone che Calogero esponeva nei quaderni non ancora editi e di qualcuno dei quali abbiamo avuto conoscenza. Il nostro discorso mira a fissare i prolegomeni, gli avviamenti allo studio filologico, storico, linguistico, estetico sia per leggere Calogero che per intendere il suo sistema. Tale impegno istituzionale filologico-storico-estetico è mancato perché Calogero è caduto in mano ai dilettanti, ai giornalisti del caso Calogero i quali hanno rappresentato nel poeta il folle, il profeta, lo sventurato ambientale ecc. senza riuscire a penetrare nella visione disperata e lacerata del mondo, ansiosa di ricomposizione che affida alla poesia una responsabilità conoscitiva (il dolore fa maggiormente conoscere la realtà) in chiave orfica. La mancanza di conoscenza integrale dei testi ha portato al romanzeggiamento intorno all’universalità di Calogero, alle forzature provinciali, all’identificazione fasulla tra vita e arte, a giudizi impressionistici (ma qualche studioso si è dedicato umilmente all’esame testuale e all’esplicazione). La conoscenza parziale non può attuare il rimando all’unità ideale dei testi (che esiste solamente nell’ipotesi fatta da un lettore pigro), alla circolazione dei temi, soprattutto nel caso di un poeta che varia, nel suo laboratorio, i temi particolari.


Alba Florio è nata a Scilla nel 1910 e la sua poesia si distende per l’arco di un trentennio, senza effusioni e spargimenti pubblicistici che non siano quelli delle raccolte Estasi e preghiere (1929), Oltremorte (1936), Troveremo il paese sconosciuto (1939) e Come mare a riva (1956). Tali raccolte sono state pubblicate quasi alla macchia, nel senso che non sono state affidate a imbonitori pubblicitari, che non hanno avuto grande diffusione e numerosi lettori; il nome di Alba Florio è rimasto confinato nell’estremo lembo d’Italia peninsulare, nessuna antologia del Novecento (se non una antologia scolastica di Pignato e Vannantò) la ricorda tra i poeti del tempo nostro, nella sua stessa provincia sono pochi coloro i quali l’abbiano distinta dall’oltracotanza sonora dei versificatori in ritardo. Eppure per la sua presenza insieme schiva e incisiva, per la sua originalità interiore e stilistica, la Florio è, insieme con quella di Lorenzo Calogero, la voce più vera di poesia di questi ultimi decenni in Calabria.

Il mondo di Alba Florio trova i suoi primi legami con il Pascoli che ha infranto gli schemi del classicismo e del petrarchismo, con il Pascoli iniziatore del linguaggio poetico del Novecento. È significativo che il Pascoli della Florio non sia quello del Casalinuovo, dei contenuti familiari, funerari, ma quello delle intuizioni del mistero, dello sgomento di fronte ai fenomeni della terra e del cosmo, della sofferta pietà umana che si riscatta in sensibili trasfigurazioni liriche. Il tirocinio ermetico di Alba Florio in Oltremorte (1936) è l’inveramente storico dello spiramentum pascoliano nel grido esistenziale di Ungaretti, nella silenziosa purità del clima quasimodiano di Acque e terre, è la presenza, in Calabria, della poesia contemporanea italiana. Il dato empirico è oltrepassato nelle forme della preghiera, del desiderio; i regni inferiori sono quasi arcaicamente avvicinati; le percezioni dei nascimenti e dei mutamenti avvengono in un’atmosfera astorica che incenerisce le cosmogonie del classicismo. L’anima è «povera» (uno degli aggettivi più personali della Florio, che immette in quel clima di solitudine in cui vivono i semplici, i bambini, i soldati) di fronte ai fenomeni del cosmo che in questa poesia dilagano sgomentando la creatura, al cosmo è legata la persona in una planetaria rete di influssi, di umori di linfe, di avvenimenti: fiumi, «scarno ossame» di pietre, rocce flagellate, bianchi frantumi, flutti come rottami, approdi di luce, generano sgomenti, calme, presagi.

La più varia fenomenologia suscita innumerevoli stati d’animo tra i quali prevale il crepuscolo viola in cui si consuma «il piccolo pianto dei bambini | che a sera | veniva dagli usci», si maturano «semi di mali futuri», si rimpiange «la perduta infanzia» che si cullava col «sonno degli angeli». Si aprono le immagini delle notti «grandi di lampi», della vita che, con l’alba, schiude «urlando | le sue foci», appaiono i morti dagli occhi senza luce, dal sonno di pietra, il rapporto con i trapassati si determina fatalmente in una necessità penosa e affettiva, quella della condizione umana ineluttabile:

Il sangue degli avi rifluisce
e si devasta in noi,
le cose i volti cari si disfanno
e ci lasciano a riva.

La personalità poetica di Alba Florio si accende nel drammatico e doloroso mondo di Troveremo il paese sconosciuto (1939), quasi sempre risolto in canto di alta intensità e compattezza lirica. I personaggi del limbo di pena, le madri povere che portano dentro i bambini «come una colpa», i soldati che «tentano rari sorrisi di condannati» scivolano in un clima di rassegnato dolore (la colpa della vita, della condizione umana, il sentimento dello strazio:

col peso della vita
ogni creatura porta una musica
di colpe e di dolori:
per essa vive e in eterno l’ascolta)

come gli animali innocenti e mansueti la cui presenza è frequentemente significativa in questo clima. Dalla sofferta solitudine che si riscatta in quanto «perdóno di esistere» si passa alla drammatica tensione di Ora che tu non vedi che supera l’impassibilità, l’aridità, la solitudine, giungendo agli accenti più personali e più tragici. Il dramma lega a sé ogni cosa, compreso l’aspro paesaggio, espande immagini cosmiche, crea grandi spazi aerei che sovrastano su rupi, acque marine, tempeste; vivono quasi sensibilmente, per la naturale forza dei contenuti, i «passi | delle maree», l’alba che «spacca il cielo», il cosmo sembra devastato da un «rovinoso dinamismo». La tensione drammatica infrange i residui ermetici con la sua compattezza lirica che individua toni vagamente quasimodiani: «Ora coi passi spezzati | e la carne trafitta | stai solo», articola variamente una sintassi poetica originalmente suggestiva: «O tu che non potrai tornare | al fiato lucente dei giorni», energica e dichiarativa: «Sconosciuto a te stesso | alla memoria dei vivi, | in poco spazio chiuso […]», ricca di immagini struggentemente evocate: «O tu che più non sai | la tacita preghiera […] | e non ricordi il colore dei giorni […]», «Ora che tu non sei, | sterile il tempo consumo», «Dove sono i tuoi occhi | grandi cieli turbati?», «Sui tuoi occhi divisi dalla luce | cresce il mare del tempo», ecc. Il tempo sereno è rimasto interrotto nella sua immota bellezza irrevocabile: «Ondulate marine erano ferme | al breve respiro dell’acque | che rodevano i monti | in un gelido abbraccio»; il colore innalza in quel ciclo di componimenti la creatura scomparsa, la cui presenza poetica è tra le più vive della poesia del nostro tempo. Essa vive per il «volto distrutto», il volto che dilegua e si fa spazio, l’«eternità di gesti», le mani che «toccheranno in eterno | primavere di buio», vive nel canto di Ninna-nanna, la più alta creazione della Florio, uno struggente lamento che non ha l’eguale nella nostra poesia novecentesca.

La tensione drammatica, che è costitutiva in questa poesia, oltrepassa l’ermetismo (del quale l’esperienza di Oltremorte è documento) e anche nelle pause di «letteratura» rivela una base esistenziale che congloba motivi e immagini dall’«involontaria colpa della nascita» alla «sciagura umana». Il male principale è la vita la quale ha in se stessa il suo castigo, la pena di vivere è nel dolore delle «bestie aggiogate» e in quello degli uomini; gli uomini sono condannati a essere docili anche quando perdono la luce degli occhi di creature amate perché «tutto in noi si rivela distruzione» e il tempo, come un mare pietoso, ci porta a una speranza di fine. Nella vita si sconta la colpa di appartenere alle «radici dell’albero del male», oscura è l’essenza della vita e sempre velata, inconoscibile: «Ora male e dolore | son l’uniche nostre radici». La morte è consumazione di ogni inizio, fatale percorso della consumazione, musica muta. Da queste radici e dalla contrapposizione, dal dualismo ha origine l’accento drammatico della Florio. In questo arco gnoseologico, in questa metafisica respirano gli inconsci «bambini dei poveri» di una grande lirica, i poveri che sono «rimproveri viventi» e che quando muoiono adeguano il loro viso «alla terra | al respiro dell’acque». Anche in questa metafisica, ora meditativa ora drammatica, si avverte lo spiramentum della sensibilità pascoliana: «E aspettammo col viso contro la terra | l’angelo della morte, | l’angelo cinto di musiche mute». La drammaticità ha corrispondenza nel dinamismo cosmico, nel cataclisma cosmico sempre incombente, altro segno del fondamentale pessimismo della Florio.

In Come mare a riva (1956) continua il sentimento di indifferenza della natura e di angoscia che grava «sulla cieca anima umana», il tempo e le stagioni segnano il cerchio ineluttabile che nel giro abbraccia la vita e la morte. In Primavera lo sguardo s’impietra fissamente nel guardare la impossibilità di uscire dai punti del cerchio, di opporsi ai prefissati accadimenti già esistenti nelle leggi della natura:

Serrato è il cerchio
nessun frutto cade prima del tempo,
tranquilla ogni casa nasconde
nascite e morti.
Così l’acqua dei porti
torbida di rifiuti
esulta di arrivi e partenze
restando ferma ai limiti di pietra:
non c’è infinito che non si riduca
allo spazio più breve.

Da questa impossibilità la desolata constatazione amara:

O squallide violenze
ricadute come aquiloni,
deluse feste.
Si ritorna alle sere ultimo approdo
di povere cose consuete.

L’ungarettiana pena di vivere, le considerazioni montaliane sulla vita come «secco pendio», «lento franamento», «scialo | di triti fatti, vano, | più che crudele», in cui «forse tutto è fisso, tutto è scritto, | e non vedremo sorgere per via | la libertà, il miracolo, | il fatto che non era necessario!», stanno al fondo di questa poesia esistenziale in cui il dolore fondamentale nasce dalla sofferta accettazione di un indifferenziato cosmico che fatalmente distrugge limiti e forme senza che si sappia dove conduca la distruzione. Tra rassegnazione e rivolta si svolge l’itinerario interiore della Florio il cui vero dramma esistenziale consiste nell’impossibilità di un assoluto, di una durata, nel crollo e nell’annientamento di ogni sperata certezza, di ogni paradigma spirituale («ogni cosa che vive | patisce il tempo, | con dolore si muta in altre forme»; «Da antiche trasformazioni | deriva il flutto degli istinti»); un agonia è nelle cose, negli animali che patiscono i mutamenti: quando l’inverno si avvicina le canne si lamentano sui fiumi, «si rattrista l’occhio delle capre», l’arido tonfo delle frane pun teggia il cadere delle giornate. Al di fuori di questa cosmica angoscia non si può intendere la poesia della Florio per la quale paesaggio e mondo esterno vivono non come proiezione elegiaca ma di loro vita geologica sottoposta alle leggi del cosmo. Il mare della Florio non è quella di Montale che volve i ciottoli o è «cresputo e fioccoso di spume», mare troppo minuziosamente, pedantescamente osservato nell’ingiallirsi dei flutti, nei grovigli delle alghe, nelle grotte che lo «assecondano», non è l’«antico» né l’«amico»; per la Florio il mare è l’eterno, un assoluto come il cosmo, il sentimento parmenideo magnogreco, dell’unità, il dolore per la fatalità delle trasformazioni tocca tutti gli elementi della vita. Il mare è soggetto-oggetto di trasformazioni, solenne elemento:

I grandi bianchi uccelli della tempesta
precedono onde-rupi
prendendo il largo al bagliore dei fulmini
per risalire ai fiumi […]
Lontano il fragore dei venti
è rimasto l’allegro singhiozzo dei gabbiani
che aprono l’aurora
prima che il buio tra i flutti si affondi […]
Si placano nel mare
le parvenze del mondo
ansiose di affermarsi all’umana durata,
di sospingere il tempo
all’ampio giro di remoti orizzonti […]
come al chiaro porto che invita
al di là di oscurissimi mari
quando i denti dei macigni
rompono nebbia
fra l’altalena dei gabbiani […]
Nella mia terra pietrosa
grandi spazii scavano i venti
che consumano il viso delle rupi
e sull’acque si abbattono in rovina […]

Il mare ha sempre il buio (il colore nero è nella Florio quello dei cataclismi cosmici, dei timori apocalittici) dei temporali e degli uragani:

Monti di buio dietro gli uragani

sonori d’acque sotterranee
di faticosi mari.

In questo clima la vita appare come colpa fin dall’infanzia («giorni-poveri ancora e innocenti»), la condanna si matura nel tempo («la fa più chiara in noi finché si vive»), i dolci aspetti della terra, la gioia rassomigliano a una «futile colpa», rimane l’abitudine a continuare la vita ripetendo gesti consueti, l’illusione di vivere («torna ai paesi intimità d’inverni | odorosi di fumo | e verzicare d’antiche lune»). Ma tutto è vano:

Lugubre è il canto delle madri
che addormentano i figli,
la sera cade sulle pietre
arida e immutabile
e non giunge all’acqua lunare.

La melodia di Come mare a riva ha una compattezza lirica ricca di suggestione e anche le immagini, ricche di colori, respirano nel tessuto unitario. Già iscritte nella visione cosmica nel precedente volume, le immagini (ricordiamo un esempio: «Vegliano la tempesta | crocifissi alle rocce | albatri dagli occhi viola») conservano qualcosa dell’antica lirica greca della quale si avverte il transito nello spirito della Florio. Gli esempi sarebbero innumerevoli. Ma preferiamo soffermarci soprattutto sulla lettura dei temi di impegno drammatico-esistenziale:

Dopo breve stagione
ci stacchiamo dall’albero di vita,
ma nuove foglie s’aprono sui rami
e colmano di sé la nostra assenza […]
Quando finirà la notte della mia vita
e il vuoto in cui come baco paziente mi sono chiusa,
e la perenne solitudine
che dagli altri mi divide […]

Lo scavo nella parola, l’esercizio stilistico, il tirocinio ermetico hanno ormai schiarito la forma e la poesia della Florio si presenta con una ispirazione dolorosa, potentemente originale nel quadro della poesia del Novecento.

  1. Nacque a S. Eufemia di Aspromonte (Reggio Calabria) il 29 agosto 1911. Fu Segretario del G.F.U. di Messina; dopo la guerra esercitò l’avvocatura fino alla morte avvenuta a Messina il 31 dicembre 1966.
  2. Tra i messinesi (o iscritti al GUF di Messina) che parteciparono ai Littoriali ricordiamo: Francesco Bitto, Luigi Bonifacio, Domenico Bottari, Giordano Corsi, Enzo Curreli, Adolfo Cuzari, Heros Cuzari, Paolo Davi, Rodolfo De Stefano, Angelo Falzea, Enrico e Felice Fulchignoni, Nicola Fulci, Mario La Rosa, Mario Lo Cigno, Giordano Bruno Longo, Giuseppe Longo, Trento Malatino, Giovanni Malgeri, Giuseppe Miligi, Alfredo Orecchio, Vincenzo Trimarchi, Dionisio Triscari, Francesco Tropeano, Emanuele Tuccari.
  3. Su Nino Pino si veda A. Piromalli, Nino Pino, Palermo, Edikronos 1983. In Una lotta nel suo corso (a cura di S. Contino Bonacossi e L. Ragghiami Collobi, con prefazione di F. Parri; Venezia, Neri Pozza 1954) si dice che Agostino Buda venne a contatto nel 1936 coi gruppi «liberalsocialisti» a Milano e negli anni seguenti, fino al 1941-42, «fu forse il più attivo, intelligente e deciso agente di collegamento del movimento clandestino in tutta Italia. Dal 1942 si fissò a Ferrara, dove ebbe larga parte nell’organizzazione clandestina del P.d. Azione e nel risorgimento degli altri partiti. Prese parte notevole anche alle discussioni ideologiche e politiche di quegli anni». Nello stesso volume si parla anche della parte che ebbe Buda nell’attrarre alla cospirazione antifascista il generale Giuseppe Pavone, «persona di alta rettitudine e di profonda devozione alla patria» che Benedetto Croce propose nel 1943 (la notizia è della Radio Nazioni Unite del 30 ottobre) al generale Donovan come comandante di un Esercito di Liberazione Italiano nell’Italia già liberata.