III. Il Cinquecento: Tra letteratura e filosofia

III. Il Cinquecento: Tra letteratura e filosofia

Nel Cinquecento la Calabria attraversa una crisi economica e sociale che toccherà il punto più acuto nel secolo seguente. La crisi non si prolungherà ininterrottamente fino ai primi decenni del Settecento ma momenti di vitalità e di ripresa economica e amministrativa si notano, in vari luoghi, durante il Cinquecento.

Tuttavia momenti particolarmente gravi della vita spirituale e culturale nel Cinquecento sono legati alla decadenza, alle condizioni in cui la decadenza si sviluppa, a episodi di intolleranza che si manifestano in diversi luoghi. Nel 1503 i Francesi, sconfitti presso Seminara, sono cacciati dalla Calabria. I genovesi danno inizio all’intolleranza, approfittando dell’antisemitismo spagnolo per fare scacciare gli Ebrei da Reggio nel 1511. Gli Ebrei, numerosi a Catanzaro, si erano creati nelle città il monopolio del commercio della seta perché prestavano agli allevatori dei bachi le somme occorrenti per la coltura. La seta, incettata dagli Ebrei, era venduta nella fiera di agosto a genovesi e lucchesi. Più tardi si avrà l’espulsione dalla Calabria di tutti gli Ebrei, una delle forze più vive nell’ambito dell’economia locale, che era stata sostenuta soprattutto da Alfonso I.

Il «superiore ideale di cultura» degli umanisti e la gloria dell’Accademia cosentina non possono farci dimenticare come gli umanisti fossero slegati dalla realtà sociale circostante. Gli umanisti scoprono codici, tramandano cultura classica, insegnano qua e là ma quasi mai si schierano contro baroni, feudatari e oppressori. Nel terribile Cinquecento calabrese gli umanisti sono lontani da chi è diverso da loro, da chi è minoranza. Contro diversi e minoranze in Calabria hanno sempre agito come strumento il tradimento e il boia (nelle varie personificazioni: dagli scannatori dei Valdesi ai plotoni di fucilatori) e potremmo ricordare i martiri e le vittime e la serie ininterrotta, ma màrtiri e vittime derivano da una sopraffazione di classe. Vicini alle turbe di contadini sottoproletari sono gli eretici (ufficialmente ribaldi e briganti).

Le minoranze valdesi di Calabria nel 1558 inviano a Ginevra il calabrese Marco Uscegli per richiedere pastori e maestri stabili in sostituzione dei barbi itineranti. Calvino mandò in Calabria Giovan Luigi Pascale di Cuneo il quale ebbe subito contro di sé frati, preti e i grandi feudatari di Montalto e Fuscaldo.

La pagina di intolleranza più dolorosa e sanguinaria è segnata nel Cinquecento dall’eccidio dei Valdesi, di colonie immigrate nel Trecento in Calabria dalle valli originarie e insediatesi a Guardia Piemontese, S. Sisto, Vaccarizzo, Montalto Uffugo, Argentina e dintorni mantenendo usi propri di lingua, costumi e religione. La riforma di Lutero e il sinodo di Chanforan (1532) segnarono una ripresa dell’attività di predicazione missionaria valdese e, in seguito alla predicazione in Calabria del Pascale, una famiglia di feudatari tristemente nota, gli Spinelli, signori di Fuscaldo, temendo per la tranquillità delle loro terre, lo catturarono e lo consegnarono alle autorità religiose che nel 1560 lo arsero vivo a Roma a Castel S. Angelo come eretico impenitente. La repressione si scatena quindi contro i Valdesi di Calabria, semplici contadini e pastori: i banditi sono «indultati et assicurati dal magistrato» se parteciperanno all’impresa, il marchese di Buccianico raccoglie anche altri uomini, le autorità religiose e civili sono concordi contro i Valdesi che rimangono fedeli alla fede avita. Si iniziò a S. Sisto la caccia all’uomo, l’incendio delle case, coloro che riuscirono a scampare si rifugiarono a Guardia, paese fortificato in cui Scipione Spinelli, signore del luogo, fece entrare a fine di tradimento le milizie regie e i banditi. I prigionieri vennero portati a Montalto e condannati a morte il 5 giugno 1561.

La strage fu terrificante, molti vennero gettati giù da alte torri, altri ebbero il capo pestato con pali di ferro. Un testimone racconta che il boia a ciascuno «con il coltello tagliava la gola, et lo lasciava così; di poi pigliava l’altro, e faceva il simile. Ha seguito quest’ordine fino al numero di 88 […]. I vecchi vanno a morir allegri et gli giovani più impauriti». Altri 86 Valdesi di Guardia furono «scorticati vivi e poi fenduti in due parti […] e a questo modo attaccati a pali piantati per tale uopo lungo la strada per la lunghezza di trentasei miglia». I duemila Valdesi «suspensi» e «iustitiati» versando il loro sangue innocente scrissero una pagina di glorioso eroismo morale e spirituale che si contrappone alla viltà dei feudatari e ai loro intrighi. Le violenze e i soprusi baronali pullulano nella storia calabrese del tempo e numerose sono anche le rivolte antifeudali e le denunzie delle università contro i baroni. Talvolta scoppia il furore popolare in eccidi e atti di sangue: Galeazzo di Tarsia cade per mano di un assassino, probabilmente in seguito alla vendetta degli abitanti di Amantea contro i quali Galeazzo aveva infierito; nel 1579 in Castelfranco è ucciso il barone Valerio Telesio, fratello del filosofo Bernardo e di Tommaso, arcivescovo di Cosenza. Anche come effetto delle violenze dei baroni bisogna ricordare il banditismo che intorno alla metà del secolo diventa il rifugio di contadini espropriati, di pastori, artigiani disoccupati, di gente senza mestiere o di sangue troppo bollente o che non ha fiducia nella giustizia: era l’unico scampo organizzato per le plebi, se si considera che i briganti si presentavano spesso come antagonisti dei baroni e dei loro soprusi.

Negli ultimi decenni del Cinquecento incontriamo Marco Berardi da Mangone che, a capo di un gruppo di banditi, assume il nome di Re Marcone, crea un piccolo Stato presso Crotone e organizza una sterile sollevazione antispagnola, riuscendo a sconfiggere le truppe mandate contro di lui agli ordini di Fabrizio Pignatelli marchese di Cerchiara. Molti elementi della personalità di Berardi sono diventati leggendari: pare che egli fosse stato educato dai Valdesi di S. Sisto, dopo la distruzione del paese e il massacro compiuto. Per questo motivo a taluni è sembrato un vendicatore, ad altri un paladino della libertà, ma occorre studiare i motivi di classe delle bande di Berardi. I motivi della crisi del secolo sono denunciati da uno storico contemporaneo, Gabriele Barrio di Francica, autore di De antiquitate et situ Calabriae (1571) il quale, dopo aver lamentato il fiscalismo del governo centrale sulla popolazione immiserita dalle scorrerie barbaresche, aggiunge:

Regio ipsa monstris etiam, regulis inquam et tyrannis, abundat, qui eam expilant et inexplebilem sitim et inexaustam avari ti am mortalium labores depascunt in dies; et sylvas, saltus, pabula, flumina, aucupia, venationes, omnia demum populorum sibi usurpant […]. Quare populus sibi subiectos, quod eos longe vexent, vexallos, hoc est vexatos appellant.

Anche il Campanella si unisce al lamento del Barrio qualche anno più tardi.

In queste condizioni di vita Marco Berardi si ritira sulle montagne opponendosi agli Spagnoli, ai feudatari e ai gesuiti. Giovanni Valentino Gentile, nato a Scigliano nel 1520, è costretto ad allontanarsi da Cosenza per le idee religiose: lo troviamo a Ginevra nel 1556 nella comunità italiana con altri calabresi valdesi e aderente alle tesi antitrinitarie. Avversario di Calvino, fu incarcerato. Il Pascale lo fece liberare ma il Gentile, povero, andò peregrinando a Farges, Lione, Grenoble, in Polonia, Moravia, Austria. Ritornò, dopo avere scritto Antidota, in Svizzera sostenendo l’esistenza di tre dei distinti e subordinati l’uno agli altri. Arrestato e accusato di arianesimo, venne decapitato il 10 settembre 1566.

Eretico fu anche il medico cosentino Agostino Doni, vissuto nella seconda metà del secolo ed emigrato, anch’egli, a Basilea, Ginevra e in Polonia per motivi religiosi; uno dei tanti alimentatori della diaspora dalla Calabria in seguito a persecuzioni. Non si conoscono le date della nascita, della morte, pochissimo si sa della vita. Scrisse De natura hominis (1581) in due libri che sono stati tradotti in italiano da Luigi De Franco. Nella sua opera il Doni dissipa le nebbie delle dottrine di medici e filosofi del passato ed espone la propria filosofia naturale («in naturalibus agendum naturaliter») che lo avvicina a Telesio. Dalle poche lettere degli anni 1580-83 sappiamo della sua povertà, delle persecuzioni di cui era oggetto anche a Ginevra, del suo ritorno nella Chiesa cattolica dopo che furono deluse le sue speranze di libertà religiosa. Abbiamo notizia di un suo viaggio a Bratislava, Lipsia, Cracovia nel 1581.

Le incursioni barbaresche completano il triste quadro del Cinquecento calabrese. Tali incursioni non furono momenti episodici o isolati ma azioni di guerra sistematica e organizzata contro le potenze cristiane. Gli Stati barbareschi dei Turchi (la Tripolitania, la Tunisia, l’Algeria) erano sentinelle avanzate di Costantinopoli, nuovo centro dell’Islam, nella lotta contro l’Occidente e la Spagna. La Calabria rappresentava un murale difensivo per gli Spagnoli, una testa di ponte per incursioni in Italiani, ai barbareschi i quali miravano con gli sbarchi, le devastazioni, le rapine, a impoverire il potenziale demografico, a far perdere la fiducia nella Spagna. E in verità avvenne, soprattutto dopo che i Turchi si insediarono definitivamente a Tunisi (1574), che nelle reggenze barbaresche affluissero moltissimi rinnegati calabresi, cioè convertiti all’islamismo. La Barberia era diventata in tal modo un asilo per ribelli, nemici, della Spagna, uomini offesi nel loro sentimento della giustizia, servi del feudo e dei baroni: tutti costoro aspettavano sulle marine il passaggio delle navi corsare per farsi imbarcare. Non mancarono fra i rinnegati religiosi avversi alla Spagna. Nella relazione di un ambasciatore veneziano si legge che a Costantinopoli esisteva un «grossissimo casale» chiamato «Calabria nuova» dove, con i riti cristiani, vivevano molti calabresi e pugliesi.

Ma la Calabria dalla sua situazione storica e geografica non ebbe che disagi e disastri perché non poteva mantenere un traffico normale con le zone di influenza barbaresca e con le reggenze africane, era soggetta al dissesto causato dalle scorrerie, al dissanguamento demografico causato dall’esodo dei rinnegati. Nel 1543 Kair ed-Din Barbarossa approda sulla costa ionica con decine di galee, compie saccheggi, rapine, incendi, assale anche Reggio, devasta a ferro e fuoco abitazioni, monasteri, entra nella fortezza e fa schiavi gli spagnoli e calabresi che vi si erano rifugiati. Nel 1550 è Mustafà Pascià a compiere una incursione contro Reggio, nel 1563 il corsaro Dragut. Ma con Scipione (detto Siman) Cicala, rinnegato, il quale nel 1594 mette a sacco e fuoco Reggio, le incursioni diventano vere operazioni belliche. Un altro rinnegato nativo di Castella, nel territorio del Marchesato, a Lepanto fu a capo di navi turche e antagoniste di Gian Andrea Doria: il suo nome è Ulicci Alì (detto anche Ucciali o Occhiali).

Nel territorio reggino la liturgia latina aveva tardato a imporsi per la radicata esistenza di quella greca nelle diocesi di Oppido e Gerace. Nel territorio cosentino la cultura creatasi dopo il Mille (durante il periodo normanno Cosenza è sede del Giustiziere della Calabria, sede arcivescovile con dignità metropolitana) è la premessa dell’assetto culturale laico del Quattrocento per opera dei gruppi cittadini (giuristi, medici, chirurghi, speziali) che precedono l’umanesimo nella loro posizione indipendente dal gruppo clericale. Essi sono staccati dalla tradizione medievale, in essi si determina l’interdipendenza tra cultura e classe politica amministrativa, burocratica e professionale che è della città demaniale e dei casali. Solo i centri demaniali potevano ottenere privilegi miranti a modificare le regole dell’amministrazione cittadina e a riconoscere i nuovi ceti (piccola nobiltà e ricca borghesia).

Dell’Accademia Cosentina non si conoscono l’origine e la struttura perché ab origine essa fu costituita da un gruppo di dotti, scienziati, umanisti che si raccoglievano intorno a Aulo Giano Parrasio e a Bernardino Telesio. Essa fu un cenacolo senza regole sociali e senza statuti istitutivi. Quando Leandro Alberti visita Cosenza (1526) non fa cenno dell’Accademia. Ma nel 1588 Giovanni Paolo D’Aquino, come fa notare il De Franco, si rivolge agli Accademici Cosentini nella sua orazione per la morte di Bernardino Telesio. Nelle lettere di Sertorio Quattromani si trovano accenni alla sorte dell’Accademia dopo la morte di Telesio, è espresso il desiderio che gli aderenti continuino a chiamarsi Accademici Cosentini perché «tutti gli altri nomi ricercati, et investigati con ogni studio et con ogni industria, mostrerebbesi più modesti, et meno ambitiosi» (1589). Probabilmente fino ad allora l’Accademia non aveva avuto un nome ufficiale quantunque tutti o quasi tutti gli uomini colti e di prestigio di Cosenza ne avessero fatto parte.

Quando la Calabria passa ad Alfonso I d’Aragona eredita le rovinose conseguenze delle lotte tra Angioini, Durazzeschi, Aragonesi. Gli infeudamenti erano numerosissimi, l’anarchia feudale di continuo ripullulante, la lontana capitale, Napoli, assorbiva le maggiori e principali risorse della regione sicché qua e là sfiammano aspre rivolte di contadini selvaggiamente represse. Né le rivolte sono sempre nel solo interesse dei contadini ché dei rustici si servono anche feudatari per guerriglie antiregie, come fece Antonio Centeglia (1458).

Un fatto molto importante durante il periodo aragonese in Calabria è la venuta degli Albanesi i quali nella seconda metà del secolo XV cominciarono a insediarsi seguendo la figlia di Scanderbeg, diventata principessa di Bisignano, o per fuggire i Turchi che, morto Scanderbeg (1468), occupano l’Albania. Si tratta di una vera emigrazione di popolazione che costituisce in Calabria delle isole etnico-linguistiche ben resistenti alla penetrazione latina e che a Lungro hanno mantenuto una eparchia di rito bizantino. La letteratura albanese, pur tra inevitabili contaminazioni, ha mantenuto una sua unità di accenti lirici nella poesia, caratterizzati dalla nostalgia della madre-patria e da desiderio di riscatto dagli oppressori ottomani1.

Pur essendo la regione gravata dagli Aragonesi e scontando le conseguenze delle lotte politiche a cui si è accennato, nel secondo Quattrocento c’è in Calabria qualche attività economica dovuta soprattutto agli Ebrei, c’è un mercato della seta che subisce varie oscillazioni e c’è, nella cultura, una fervida presenza di maestranze d’arte, di architetti, di scalpellini, di intagliatori, nella regione vengono artisti del centro e del settentrionale d’Italia. Nella letteratura la Calabria partecipa della fiorente vita dell’umanesimo meridionale e napoletano soprattutto, per la rinascente vita letteraria che troviamo a Cosenza2. Nella parte settentrionale della Calabria, già occupata dai Longobardi e compresa quale gastaldato nel ducato di Benevento e nel principato di Salerno, la tradizione latina era stata meno fluttuante e incerta sicché nel secolo XV se ne possono raccogliere le fila in virtù dell’umanesimo sotto la cui insegna si raccolgono gruppi di letterati, di storici, antiquari, filosofi e scienziati.

La loro attività si costituisce negli ultimi decenni del Quattrocento e fiorirà in più aperte forme di arte e di cultura nel secolo seguente. Nel secondo Quattrocento visse Facio Patarino di Amendolara il quale dedicò nel 1474 la sua opera Trattato di mascalcia3 scritto in volgare a Ferrante d’Aragona. Calabresi di origine ebraica furono nel Quattrocento i medici Giuseppe Vidal di Reggio che tradusse dall’arabo in ebraico La grandezza dei gradi e delle virtù delle erbe di Giosuè ben Weibesc Abraki; e suo figlio Mosé, conosciuto come Vidal Bellschom, autore di un Trattato di terapeutica.

Giovanni Paolo Parisio, meglio conosciuto col nome di Aulo Giano Parrasio, che il Sabbadini ha definito «il più illuminato umanista e il critico più geniale del suo tempo», rappresenta il primo avviamento verso l’umanesimo latino e ad esso si ispireranno numerosi poeti in latino cosentini. Il Parrasio nacque a Cosenza nel 1470 e ricevette il primo insegnamento nelle discipline classiche da Giovanni Grasso di Serra Pedace prima e da Tideo Acciarino marchigiano in seguito. Quest’ultimo ebbe in Cosenza come discepoli anche Antonio Telesio, Bernardino e Coriolano Martirano, Carlo Giardino, G.B. Inglesio, Leonardo Schipano, Francesco Franchini, Aulo Pirro Cicala, Nicolò Salerni, Andrea Pugliano ecc. La vita del Parrasio si svolse in vari luoghi d’Italia, prima per desiderio di apprendere il greco e il latino (a Lecce, Corfù), poi per conoscere i grandi umanisti del tempo appartenenti all’Accademia pontaniana e romana, infine per insegnare. La cultura classica rifioriva in Calabria con l’insegnamento cosentino del Parrasio (1491) dopo essere uscita dai chiostri e dai monasteri, l’insegnamento raggiungeva anche i laici, si creava una atmosfera favorevole agli studi e alla poesia. Gli umanisti sopra ricordati avevano creato un cenacolo solidale negli spiriti e nei sentimenti sia per la patria comune che per i comuni desideri. Essi, scrive opportunamente il Cianflone in uno studio sul Casopero, furono affratellati

non solo dall’amore della terra comune, da quel legame di affetto nato a Cosenza tra gli studi severi, coltivato continuamente e rinsaldato dai comuni pericoli corsi durante le vicende che travagliarono l’Italia meridionale o dall’incantevole aria di poesia spirante nel golfo di Napoli ma anche da quel superiore ideale di cultura, che è l’atmosfera dell’umanesimo.

Nel 1499 Parrasio è a Milano dove per otto anni svolge la sua massima attività filologica insegnando eloquenza e rinnovando gli studi giuridici. A Milano ebbe come allievo Andrea Alciati e sposò Teodora, figlia di Demetrio Calcondila. Lo troviamo quindi a Vicenza, Padova, Venezia, insegnante, anche durante la travagliata situazione della lega di Cambrai, finché povero e malato ritorna, nel 1511 in patria dove fonda la celebre Accademia Cosentina. Ma ancora insegnante è, nel Ginnasio di Roma dal 1514 al ’17, quando Leone X gli elargisce un assegno vitalizio. A Cosenza, dove trascorre l’estremo periodo della sua vita, fino alla morte (1522), ritorna nel 1521. Parrasio fu un grande rianimatore degli studi classici e un grande maestro il quale diede l’impronta alla cultura calabrese e cosentina rinnovando l’umanesimo. La sua attività fu varia e feconda. Studiò Claudiano, Ovidio, la poetica di Orazio, Cornelio Nepote, Cicerone, commentò Cesare, Valerio Massimo, Catullo, Stazio, Floro ecc., pubblicò testi con annotazioni, nel De rebus per epistolam quaesitis (Parigi 1540) raccolse varie chiose a passi di classici latini illuminando la ricerca con annotazioni. Compilò un vocabolario giuridico, compose una miscellanea storica, si occupò anche di storia della regione, scrisse versi elegiaci ed endecasillabi. La sua attività fu filologica e critica, salvò autori dell’antichità, altri interpretò genialmente continuando l’opera di Valla, Poliziano, Pomponio Leto. Intorno a sé creò un fervore di attività filologica e artistica, manifestandosi grande maestro di dottrina e di umanità. I suoi discepoli G. Cesario e il Cimmino lo aiutavano nelle ricerche erudite e nelle trascrizioni di codici, ad essi confessava di essere ridotto, per i mali che lo afflissero nella vita (tormentosa e continua la gotta, fra gli altri), ad un’erma «quippe cui nec manus nec pedes ad officium dati». La fioritura umanistica di Cosenza è in massima parte a lui dovuta ed egli ne era orgoglioso come scriveva a Vincenzo Tarsia: Lucilio, Cicerone, se fossero allora vissuti, «iuventutem consentinam bonarum artium studiis cum quavis civitate certantem viderent». Come Cassiodoro mille anni prima aveva riorganizzato la cultura intorno all’eredità di Roma, Parrasio adesso rielabora la lingua romana per creare l’immagine di un futuro umanistico.

Del Parrasio poeta latino è ben nota una elegia Ad Luciam pubblicata nel 1534 a Napoli in una raccolta di versi latini di altri due poeti cosentini, di Aulo Pirro Cicala e di Leonardo Schipano, discepoli dello stesso Parrasio. Altra edizione avremo nel 1771 per opera di Saverio Mattei.

Amico degli umanisti concittadini fu il cosentino Niccolò Salerai, nato intorno al 1490, autore di Sylvulae epicedicae, encomiasticae, satyricae ac paraeneticae (1536). Discepolo del Parrasio fu Carlo Giardino di Malito.

Numerosi furono i parrasiani cosentini. Congiunto di Parrasio fu Pietro Paolo Parisio nato a Cosenza (o a Figline) nel 1473, giurista, marito di Gismunta, figlia di Giacomo di Tarsia. Perduta la moglie e l’unico figlio abbracciò la vita ecclesiastica. Nominato correttore dell’archivio della Curia romana, professore di diritto a Roma, Padova, Bologna, nel 1538 diventò vescovo di Nusco e nel 1539 cardinale. Morì nel 1545. Di lui rimangono numerosi commentari ai Decretali.Gli studi di diritto avranno molti seguaci e maestri nell’ambito dell’Accademia Cosentina.

La vita di Parrasio è caratterizzata da taluni tratti del suo tempo. Fece parte dell’Accademia Pontaniana a Napoli e i soggiorni napoletani sono importanti per le relazioni con gli altri umanisti: al napoletano Antonio Seripando lasciò la propria ricca (anche di codici preziosi) biblioteca; a Napoli ebbe cariche e favori da Ferdinando II di Aragona. Parrasio non è solo umanista latino, il greco ripreso a studiare a Corfù con Giovanni Mosco, Francesco Pucci (già scolaro di Poliziano) a Napoli ebbe da lui molta attenzione; greca era la moglie, figlia di quel Calcondila che era stato chiamato a insegnare greco a Firenze, aveva compilato una grammatica greca per domanda e risposta (1493), aveva tradotto classici greci e curato l’edizione principe di Omero.

Proficua fu la sua attività a Milano; là conobbe il Trissino, ebbe tra gli allievi l’Alciati ma l’invidia – che accompagnava spesso la precaria vita degli umanisti – lo portò peregrino nel Veneto. La stella favorevole ritorna con Leone X al cui tempo lo troviamo insegnante di retorica al Ginnasio di Roma (dove insegnano Calcondila, il Nifo, Gerolamo Botticelli); a Roma ebbe dal papa una pensione, conobbe Paolo Valeriano autore del De litteratorum infelicitate sulla vita precaria degli umanisti.

L’attività di Parrasio fu filologico-grammaticale e filologico-critica, con interventi esegetici che sono dei confronti di testi. Secondo una tradizione diventata un topos la poesia è animata da un furor divinus che è dal Medioevo alla fine del Cinquecento il suo emblema di difesa, il segno di una missione etico-religiosa che circonfonde la cultura greco-latina e quella patristica. È un presupposto nobilitante, idealistico, non scientifico, è una parte della funzione della poesia (l’accensione nobilitante nel significato orfico o mistico ritornerà, dopo l’illuminismo, con il romanticismo in una sua tendenza). Parrasio non subordina la poesia a un canone religioso – come facevano gli umanisti cattolici –, assegna al poeta doti morali, sottrae la poesia al metastoricismo platonico per portarla fino all’humanitas della storia perché la poesia deve docere, delectare, movere e si articola in historia e fabula. All’interno del sistema Aristotele-Orazio, Parrasio accoglie con cautela nell’arte il concetto di riproduzione della natura nell’accezione della verosimiglianza. In età in cui era assai difficile distinguere tra oratoria e poesia la direzione di Parrasio è importante e indica che l’umanista critico non era in lui inferiore al grammatico, al divulgatore, al grande professore, al fortunato scopritore di codici a Bobbio.

Le minacce dei Turchi contro la Calabria cominciarono a diventare concrete quando essi raggiunsero Otranto (1480). Nel 1511 saccheggiarono Reggio, nel 1524 colpirono Scilla, S. Lucido, Cetraro, Cirella; nel 1535 Carlo V conquistò Tunisi e liberò 1600 schiavi cristiani; dopo questa impresa l’imperatore visitò Sinopoli, Seminara, Tropea, Vibo Valentia, Nicastro, Rogliano, Cosenza, Castrovillari, Laino, Bisignano. Ma le incursioni riprendono, guidate dai rinnegati (cristiani diventati capi corsari). Tale fu il ricordato Ulicci Alì, pescatore di Isola Capo Rizzuto, il cui nome era Giovan Dionigi Galeni che, catturato dai Turchi, diventò ammiraglio corsaro e il più audace scorridore del Mediterraneo. Dopo avere sposato Bracaduna, la figlia di un pirata al quale era stato venduto, e avere abbracciato la fede musulmana fu agli ordini di Dragut, partecipò alla presa di Jerba, alle spedizioni contro Susa, Sfax, Monastir, all’attacco di Tripoli e alla distruzione della guarnigione dei Cavalieri di Malta. Diventato governatore di Tripoli e di Algeri conquistò Cipro, partecipò alla battaglia di Lepanto con estremo ardimento che gli valse il riconoscimento di «spada dell’Islam». Per le minacce turche venne costituito in Calabria un sistema costiero difensivo con centinaia di torri che segnalavano l’apparizione di pirati.

L’attività economica entrò in crisi per le incursioni, diminuì la produzione della seta. Un altro motivo di crisi fu la diminuita importanza commerciale del Mediterraneo dopo la scoperta dell’America. Si rinforzano commercialmente ed economicamente gli Stati bagnati dall’Atlantico e dal Mare del Nord dove si struttura in modo moderno, antifeudale, la borghesia che accoglie la scienza moderna, la tecnica, il capitalismo. La Controriforma e il dominio spagnolo sono altri ostacoli in Italia all’affrancamento dal regime feudale che trono e altare favoriscono. Dal 1504 il dominio spagnolo è esteso su tutto il Regno di Napoli che non è più indipendente ma diventa vicereame di Spagna.

L’aristocrazia feudale in Calabria dà in affitto le terre e vive nella capitale in modo superiore alle proprie possibilità, si indebita, è costretta a vendere le terre ad affittuari, mercanti i quali con tali traffici formano una borghesia di qualità feudale, non imprenditoriale, che non si proietta verso il futuro ma che vuole sopravvivere vivendo di rendita. In Spagna l’aristocrazia è incapace di fare rendere i tesori dei preziosi che giungevano dall’America.

La Calabria minuziosamente descritta da Leandro Alberti domenicano bolognese che ebbe compagno di viaggio Francesco Silvestri di Ferrara, generale dell’ordine, ha per l’autore abitanti piccoli di statura, di colore «aquilo» (bruno scuro), rozzi di costume e viventi in modo grossolano in case povere e malfatte, scarse di suppellettili e in alcuni paesi scavate nei monti come grotte. L’igiene era scarsissima, la puteolenza nei paesi e anche nelle città era insopportabile per l’usanza di riversare nelle strade i «cantari». Gli abitanti di paesi e città sono distanti dalla classe feudale formata da signori estranei alla regione. L’Alberti non si chiede i motivi di tale distanza.

Dieci anni dopo (1535) Carlo V «eroe d’Europa», «crociato», proveniente da Tunisi sbarcava a Reggio e risaliva per tutta la Calabria, estrema periferia di uno sterminato impero e incontrava lungo il viaggio i maggiori feudatari quali i Ruffo, i Del Fosso, i Sanseverino, i Caracciolo, gli Spinelli regolando i rapporti con essi anche ai fini di un controllo politico.

Il concilio di Trento nei suoi diciotto anni di durata vide la partecipazione di diversi vescovi e cardinali calabresi (da Coriolano Martirano a Marco Lauro, Marcello Palmieri, Gaspare Ricciulli Del Fosso, Guglielmo Sirleto, G. Crisostomo Calvini ecc.).

Alla battaglia di Lepanto la Calabria partecipò con navi equipaggiate da Tropea, Seminara, Caulonia, Melicuccà. Abbiamo ricordato importanti eventi storici di diversa qualità per rendere evidenti le strutture politiche del tempo. Il mondo italo-greco è finito e non dà supporto alla cultura calabrese, la Calabria è periferia territoriale infeudata e sfruttata da padroni indifferenti, non esistono signorie e non c’è un rinascimento, gli umanisti calabresi saranno girovaghi nei centri di studio, la Chiesa cattolica impone la restaurazione, trono e altare si alleano. I personaggi che si muovono per terra e per mare esprimono anche audacie avventuristiche riferibili al mutamento sociale e culturale che si comincia a verificare, altri raggiungono i centri di studio dell’Italia settentrionale, le corti, i grandi ordini religiosi: Giovanni Baccanelli di Reggio va a Ferrara come alunno di Antonio Brasavola, a Ferrara si reca pure il legale Bernardino Bombini (1523-1588) di Cosenza); a Napoli nel 1593 il celebre Rutilio Benincasa di Torano (1555-1626) stampa per la prima volta il suo Almanacco perpetue; G.B. Britti di Cosenza (1555-1586) comandato dalla Stamperia Orientale di recarsi in Etiopia giunse ad Alessandria, passò in Asia per giungere in Etiopia attraverso il Golfo Persico, assalito dai corsari fu avviato a Goa dove fu ospite di Filippo Sassetti; Camillo Costanzo di Bovalino, gesuita, nel 1602 partì missionario per la Cina, dimorò a lungo in Giappone e a Macao, nel 1622 fu arso vivo a Nagasaki; Valentino Giovanni Gentile di Scigliano fu a Ginevra, nella Savoia, a Berna, in Polonia, in Moravia, in Austria, ancora a Berna, fu decapitato come eretico; Agazio Guidacero insegnò lingua ebraica a Roma, fuggì a Parigi per il sacco di Roma: a Roma aveva appreso l’ebraico da Rabbi Iacob Sabbei giudeo portoghese (tradusse il Cantico dei Cantici, i salmi di David, compose una Grammatica ebraica, morì a Parigi nel 1542); in Transilvania morì Venanzio Negri di Cosenza, riformatore, scampato alla strage di Guardia Piemontese del 1561 e riparato a Ginevra; a Parma svolse in gran parte la sua attività Giano Pelusio di Crotone, precettore di Romerio e di Odoardo Farnese; Aquilante Rocchetta di S. Fili (1567-1630) nel 1598 parti per Antiochia, Damasco, Gerusalemme (qui fu ordinato del Santo Sepolcro), per l’Egitto e Malta ritornò a Palermo e lasciò una relazione del suo viaggio; G.B. Vecchietti di Cosenza (1552), sacerdote, incaricato di recarsi in Egitto per ricondurre alla Chiesa cattolica i copti di Alessandria compì altre missioni in Persia e in India e conobbe quelle lingue, cadde prigioniero dei pirati che lo condussero a Biserta dove il fratello Girolamo lo riscattò (morì a Napoli nel 1619); Domenico Vigliarolo di Stilo, sacerdote, cartografo, pubblicò carte e atlanti nautici, passò in Spagna dove iberizzò il suo cognome in Villaroel, fu cartografo del re di Spagna, passò a Bordeaux dove forse morì; questi esempi e molti altri ci portano alle guerre fra gli Stati italiani, alle persecuzioni religiose, alle lotte dei cattolici contro gli eretici, alle fughe verso i paesi protestanti, all’evangelizzazione dell’estremo Oriente.

Un riacquisto – nella sua conoscibile identità – alla cultura calabrese è stato compiuto per opera del De Franco della personalità di Tiberio Rosciliano Sesto nato (forse a Gimigliano) negli ultimi decenni del secolo XV. Le poche notizie sicure sono che Rosciliano fu discepolo (intorno al 1507) a Salerno di Agostino Nifo, che fu molto polemico nelle dispute, che ritornato dopo diciotto anni nel paese calabrese non conobbe e non fu riconosciuto da alcuno. Per addottorarsi e, poi, per insegnare andò errando in diverse città d’Italia. A Bologna tentò di proporre una pubblica disputa delle proprie tesi contro Pico della Mirandola, per la difesa della concordanza di Platone e Aristotele e di tutti i filosofi greci. Erano tesi di metafisica, scienze naturali, dialettica, astrologia contrastate dagli ecclesiastici e, soprattutto, dai variopinti monaci «cucullati» i quali lo accusavano di essere eresiarca. Nel 1519 a Firenze discusse le sue conclusioni in S. Maria degli Angeli davanti a teologi e filosofi ma dovette abiurarle. Era già stato a Ferrara; quindi lo troviamo a Padova (dove ha un certo favore per la prevalenza in questa città dell’aristotelismo eterodosso), a Parma dove pubblica alla macchia l’Apologeticus adversus cucullatos (1520). Il libro è interdetto e bruciato (1523). Rosciliano va a Pisa dove è fatto arrestare da Girolamo Armellini Inquisitore della Lombardia. Incarcerato a Firenze, fuggì prima del processo.

Nel 1526 pubblica a Palermo gli Universalia Porphiriana, traduzione e commento dell’Isagoge di Porfirio. Da allora in poi non si hanno più notizie della sua vita (né della sua morte).

Rosciliano ebbe una mente forte ed organica e si rese conto del contrasto tra scienza e fede. Si professò cattolico e devoto alla Chiesa in tutte le circostanze in cui esaltò la filosofia, la ragione e dimostrò la non validità della teologia; anche quando giunse all’irrisione e all’ironia intorno a tesi che sviluppò in modo del tutto ereticale. Una sorta di dissimulazione percorre tutta la sua opera, la professio fidei è come l’equivalente di salvezza della pazzia di Campanella. Egli affermò che se alcuno scrive cose nuove e originali troverà avversari i quali si arroccano sull’antico.

Il suo pensiero si inquadra nella corrente dell’averroismo latino e suoi avversari dichiara tomisti, scotisti, Avicenna, i terministi, gli accademici, i peripatetici, gli astrologi greci, latini e arabi; talvolta fu d’accordo con Averroè, Pico della Mirandola, Pomponazzi. I primi nemici sono i «cucullati versicolores» dei quali l’Armellini lo definisce «dilacerator pessimus».

Rosciliano sostenne da fisico le sue tesi: Cristo in quanto uomo fu sottoposto all’influsso degli astri; il mondo, il movimento e il tempo sono eterni e non vi fu un solo diluvio universale (e altri ve ne saranno: «infinitiesque futurum esse difendimus») perché le grandi congiunzioni astrologiche che hanno determinato l’evento si verificheranno altre volte (ma il diluvio non sarà determinabile perché l’infinito è sconosciuto in base a tutte le sue parti); ogni animale – anche l’uomo – può essere prodotto identico nella specie, dal seme e dalla putredine (tesi naturalistica): i diluvi estinguono gli uomini, dalla putredine spontaneamente si rigenerano; l’origine soprannaturale di Adamo è contraria alla filosofia e al punto di vista fisico («extra philosophiam omnes deambulamus»); anche l’anima razionale ha una origine terrena e la pretesa attività creativa divina è la forza generatrice del sole e degli astri; le mani creatrici divine (di cui parla Mosé) sono una metafora della forza delle stelle e degli astri; dalle umane belve primeve emanava un muggito che si trasformò in voce articolata che nei diversi luoghi del mondo diventò locuzione diversa (lingua): nessuna lingua precede le altre, nascono tutte contemporaneamente. Una mirabile consequenzialità fisico-naturalistica è in queste tesi svolte con capacità inventiva collegata con le basi storiche dell’umanità.

Rosciliano difese dialetticamente le sue tesi e sostenne che al pane eucaristico ineriscono tutti i caratteri accidentali che lo rendono pane e solamente pane (da cattolici si può sostenere, egli dice, che Dio supplisce creando l’accidente = atto senza sostrato); Cristo non scese all’inferno (per ridurre Cristo a uomo); a nessun peccato mortale è dovuta la pena eterna, ecc. Nella propria difesa Rosciliano è ironico, sofisticato, demistificatore, si serve di testi sacri, sostiene di aver parlato come filosofo e astrologo, innalza un inno alla Filosofia contro i monaci, i medici che mescolano scienza del pensiero e teologia. L’opera di Rosciliano è per De Franco ribollente come lava, con lampi di genialità. Scritta «super genua» (sulle ginocchia), nelle traversie delle peregrinazioni, con sopravvivenze medievali nella cultura e nella società, esprime l’opposizione tra scienza e fede, proclama il valore – sofferto – dell’intellettuale filosofo, degli assoluti etico-logici, dell’empirismo e nella sua versatilità propone una soluzione più moderna dell’origine dell’individuo vivente: le idee esposte sono sostenute prima di Campanella ma con una ostinazione e una dialettica degne del filosofo di Stilo.

Le applicazioni tecniche sono praticate utilmente in una regione che aveva buoni artigiani: i cartografi Prospero Parisio di Cosenza e Domenico Vigliarolo di Stilo usarono rispettivamente la più antica carta a stampa della Calabria e uno strumento idoneo a misurare la longitudine in alto mare; il primo trattato di calligrafia comparato è dovuto a G.B. Palatino di Rossano, inventore dei caratteri palatini; un presbitero di Cenide (Villa S. Giovanni), Girolama Fava, fu specialista in microsculture; Matteo Fiorimi di Polistena e vissuto a Siena fu ottimo calcografo e incisore (oltre che tipografo ed editore).

Giovanni Battista D’Amico, nato a Cosenza nel 1512 (o 1513), nel 1538 fu ucciso a Padova per invidia della sua eccellenza di mente e della pubblicazione (1536) della sua nuova opera De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica. Il Quattromani lo ricorda esperto di lingua latina, greca, ebraica, di astrologia. L’opera di D’Amico venne ristampata a Parigi (1540) dall’eretico Guglielmo Postel, è citata (indirettamente) da Copernico, più volte da Campanella che non ne approva l’ortodossia aristotelica. Il D’Amico si fonda, sulla base di due suoi maestri padovani, sulla teoria degli omocentrici intorno alla quale discorrevano filosofi e astrologi. Egli preferisce la dimostrazione matematica all’esperienza e agli strumenti scientifici e combatte la concezione tolemaica in nome del passato.

Mentalità di ortodosso seguace cattolico ebbe Giovanni Antonio Pantusa (nato a Cosenza tra il 1500 e il 1501) che si diede alla carriera ecclesiastica: nel 1545 è canonico della Chiesa cosentina dopo essere stato al servizio dei cardinali Ridolfi e Ardinchelli; per il favore di quest’ultimo nel ’47 diventa vescovo in Campania. I suoi studi furono teologici (predestinazione, grazia, libero arbitrio). Nel 1561 il cardinale Seripando, legato a latere del Concilio di Trento, lo chiamerà a Trento come canonista; qui la morte lo coglie nel 1562. In un’opera di filosofia, le Quaestiones (1525) sulla metafisica di Aristotele, ricorda le dispute tenute a Pisa, si professa seguace di Duns Scoto; nella maturità fu seguace di Tommaso d’Aquino.

Di un altro «girovago per l’Europa», Annibale Rosseli, ci dà precise notizie Luigi De Franco. Nato a Gimigliano nel 1525, istruito a Catanzaro, nel 1546 si reca a Napoli a studiare filosofia all’università, poi a Parigi, Londra, Lovanio dove si dà tutto agli studi di teologia; da Lovanio ritorna in Italia, visita diverse sedi di università e infine si ferma a Todi dove insegna filosofia e teologia rimanendovi dal 1570 al 1580, studia «diu noctuque» (notte e giorno) le opere ermetiche che vanno sotto il nome di Mercurio Trimegisto e che egli legge nel testo greco e nella traduzione di Marsilio Ficino. Non sappiamo quando indossò l’abito di cappuccino. Il Cardinale Francesco Gonzaga, ministro generale dell’ordine, lo manda come missionario in Polonia, il Rosseli porta con sé i libri già composti del suo commento a Trimegisto. L’immensa erudizione classica, medievale, latina e scientifico-filosofico araba di Rosseli è riversata nel suo lavoro commentario alle opere ermetiche. In Polonia fu a Cracovia, presso il convento francescano di S. Bernardino, dove occupò la cattedra di filosofia e teologia. Il primate Stanislao Kornkovski, entusiasta dei libri commentari già composti dal frate calabrese, si assume l’onere di spesa per la stampa che comincia a pubblicare dal 1584; i volumi pubblicati sono stati sei, di un settimo volume edito e non pervenuto si ha notizia da eruditi settecenteschi. L’opera «immane» di Rosseli si compone di 6395 fogli, opera di apologetica cattolica di un abile controversista conoscitore anche storico di tutta la cultura antica. Nel commento sono trattati tutti i temi metafisici della dottrina cattolica, quelli filosofici, fisici; il sistema è geocentrico, eurocentrico, italo- centrico; tutti i continenti e tutte le nazioni d’Europa vi sono descritti, non mancano gli elenchi dei papi, degli imperatori dei turchi, dei tiranni longobardi, dei re goti, unni e vandali. L’originalità dell’opera è scarsa. Non sappiamo quando e dove Rosseli è morto.


La lirica volgare del Cinquecento in Calabria ha il suo maggiore rappresentante in Galeazzo di Tarsia che è anche una delle voci più originali della poesia italiana del secolo. In Galeazzo, inoltre, si riconoscono i primi brividi di una ispirazione più cupa, più tormentata di quella rinascimentale, nel poeta calabrese si possono cogliere i primi segni di una sensibilità che sarà caratteristica del manierismo e dell’età prebarocca.

Calabrese possiamo chiamare Galeazzo di Tarsia anche se è nato a Napoli (e non a Belmonte, come scrivevano gli antichi storici), prima del 1520, perché la sua vita si svolse in ambiente calabrese, e, anche se lontano dalla Calabria, in relazione con le vicende di quella terra e della sua politica. Antichi biografi avevano confuso la fisionomia del poeta con quella dell’avo omonimo e avevano creato la leggenda del reggente-poeta; solamente negli anni 1882-84 Francesco Fiorentino e Angelo Broccoli stabilirono la vera identità del poeta in seguito alla scoperta di importanti e probatori documenti ma la fisionomia biografica e umana più veritiera e moderna è stata accertata da uno studioso napoletano, Carlo De Frede al quale si deve una esemplare monografia storica e letteraria. Per la prima volta è affrontato con seria documentazione il problema della collocazione storica di Galeazzo di Tarsia. Già dal tempo della prima edizione delle Rime,curata da Giambattista Basile nel 1617, la biografia risultava molto incerta e non erano passati che sessanta anni dalla morte del poeta; a metà del Settecento lo Spiriti forniva un profilo del poeta che è una sequela di approssimazioni e di confusioni con l’avo reggente e il Bartelli, in un lavoro, che è pure per altri versi pregevole, ricalcava le inesattezze. Il De Frede si è incontrato con il barone di Belmonte attraverso ricerche e studi delle fonti documentarie per la vita del Mezzogiorno durante il Cinquecento.

La famiglia calabrese di Tarsia – della quale un ramo prosperò a Capodistria – era imparentata con Pietro Paolo Parisio, parente di Giano Parrasio ed era prossima alla cultura dell’umanesimo cosentino. Galeazzo derivò da famiglia calabrese, ebbe un’educazione quale allora si dava ai rampolli di famiglie feudali, esercizi cavallereschi non disgiunti da studi letterari. I sonetti, comunque, dimostrano il grado di finezza culturale di Galeazzo. Questi, però, si iniziò subito ai modi di vita dispotici assai comuni fra i baroni meridionali e fin dal 1547 è accusato di soprusi e violenze dalla popolazione di Belmonte, feudo del quale egli era diventato erede a dieci anni. La sentenza del Sacro Regio Consiglio descrive le vessazioni perpetrate dal barone contro i vassalli

(male pessime ipsos tractabat, multos et quamplures ex eis minus debite carcerando, alios iniustissime torquendo; nonnullos gravibus ac atrocibus iniuriis afficiendo, aliis quampluribus evaginatis ensibus propria manu volnera non levia inferendo […] et cetera faciendo quae honestatis causa silentio praetereunda censui).

Per un anno e mezzo Galeazzo rimase relegato nell’isola di Lipari, con la privazione delle prerogative feudali, cioè della giurisdizione civile e criminale del feudo di Belmonte. Ritornato nel feudo, nel 1549 Galeazzo è implicato in una grave azione di rappresaglia e in atti di brigantaggio contro la cittadina di Amantea, aiutato nelle sue violente e omicide scorrerie dai fratelli Cola Francesco e Tiberio. Le accuse contro il barone dicono che egli aveva nelle sue file «forasciti et delinquenti». Confinato a Napoli, a causa della morte della giovane moglie, Camilla Carafa, sorella del conte di Mondragone, ritorna a Belmonte per pochi giorni. Dopo un’altra relegazione all’isola di Lipari, Galeazzo partecipa alla guerra di Siena, forse per riabilitarsi; nel 1553 è ucciso probabilmente nel suo territorio e quasi certamente sull’oscuro sfondo delle vendette contro le prepotenze baronali. Agli eccidi delle plebi rurali corrispondevano spesso feroci tirannicidi. La morte violenta getta una cattiva luce storica su Galeazzo e vi contribuiscono anche i suoi soprusi.

Non dobbiamo dimenticare, come propose il Croce,

tutto l’altro che deve essere stato in lui: quel che di meglio egli, animo certamente non volgare, poneva, forse negli atti o nei propositi della vita; quel che agitava e riscaldava il suo petto e che si sente nei versi che soli ci sono rimasti

ma non si può neanche giustificare per i meriti letterari il barone angariatore e torturatore.

Le sue rime, pubblicate con molte scorrettezze dal Basile, furono ricondotte a una lezione più propria da Salvatore Spiriti il quale nel 1758, valendosi di un nuovo codice, il Cavalcanti, accresceva di quattordici componimenti il canzoniere tarsiano. Nel 1888 il Bartelli fondava su quella dello Spiriti la sua edizione cosentina contenente 46 sonetti, 2 canzoni, un madrigale, una sestina.

Per l’intensità e l’intima accensione lirica delle rime il Tarsia è stato considerato dal Momigliano, dal Muscetta il più originale dei petrarchisti. Pur entro gli schemi della tradizione petrarchesca, in verità, il Tarsia riuscì a esprimere un animo nuovo e una poesia senza scorie, nervosa ed energica, ricca di sensibilità che si rivela con pochi tocchi. Per tali caratteristiche l’individualità del Tarsia ha spicco più della tecnica letteraria e i critici di questa poesia seria e tormentosa hanno potuto parlare di un travaglio dello spirito tarsiano vicino a quello dei romantici. Componimenti e versi del Tarsia, infatti, hanno avuto fortuna singolare (il Foscolo derivò da lui il verso dei Sepolcri: «se ti fur care le mie chiome e ‘l viso», il Carducci forse derivò da «Tempestose sonanti e lucide onde» il suo sonetto «Tirreno anche il mio petto è un mar profondo») per il colore cupo e corrusco dello sfondo della sua poesia in cui il pensiero e il sentimento imprimono un’immagine di forza e di gravità, espressione di quell’aspirazione morale a cui Tarsia tendeva.

Il Foscolo, il quale giudicò bellissimo il sonetto «Già corsi l’Alpi gelide e canute», disse che il Tarsia aveva scritto «come uomo che non sa né vuole imitare»: il giudizio foscoliano è in parte veritiero perché tocca un motivo importante della personalità di Galeazzo, l’originalità e il temperamento, le passioni e il sentimento, gli affetti che furono caldi e vivi. Quel giudizio, inoltre, nasce da una consonanza sentimentale del Foscolo con atteggiamenti e caratteri del sentire del poeta calabrese. Questi, più che essere dotato di vasta fantasia, è animato da forti e profondi pensieri, di solito gravi e meditativi, i quali germinano da una sensibilità che solo indicativamente possiamo chiamare preromantica: il colore cupo – come abbiamo detto – della sua poesia, indica una sensibilità acuta e volta a cogliere l’ombra fosca, il dolore che consuma, l’insormontabilità degli ostacoli, la forza del destino avverso. Per manifestare tale sensibilità, certamente nuova, originale e individuale rispetto agli sciapi temi amorosi del suo tempo, il Tarsia si vale della tecnica e della letteratura petrarchesca ma senza svanire nell’astrazione, nel vagheggiamento di modi stilistici già consumati. Il Tarsia tende alla concretezza, la parola per lui non è unicamente armonia ma soprattutto è funzionale sicché il ritmo del verso vive nella necessità di accendere a fiamma vivissima e caldissima stagionata legna. Giustamente il Ponchiroli può affermare che Galeazzo è poeta di figure e di immagini più che di sentimenti, di immagini forti e rilevate, intensamente dolorose, per lo più, anche nei pochi sonetti politici che egli scrisse. L’originalità non significa, però, antiletteratura poiché il Tarsia era espertissimo dei modi e delle forme più raffinate del suo tempo e, assai minutamente, dello stile del Petrarca che ricorre molto spesso nei suoi componimenti. Ma il Tarsia, per la sua tendenza alla concretezza, per il suo tendere verso le cose più che verso le parole, desume da Petrarca ciò che è più vero e più intenso, più essenziale, più strutturale. Il disdegno, del resto, della facile letteratura, lo ha tenuto lontano dalle sabbie mobili del petrarchismo deteriore, dalle immagini astratte, dal musicismo, dalle liquidità sentimentali.

Ben altra da quella liquifonica dei mediocri petrarchisti è la sua musica: aspra e raddensata, secondo il Flora, «pari a un preludio di tragedia». Nei suoi versi, come in quelli del Tansillo, la grande onda melodica della lirica rinascimentale si frantuma creando dolorose risonanze che sono molto importanti per delineare il turbamento stilistico e psicologico del classicismo sereno: la crisi rinascimentale, storica e culturale, si coglie anche nello stile e nel linguaggio talvolta torbido del Tarsia. In Calabria, del resto, l’umanesimo e il rinascimento storici hanno breve vita per la mancanza di centri autonomi di vera cultura, di un centralismo politico, di classi dirigenti capaci di guardare oltre la precarietà e l’incertezza del presente.

Il Tarsia oppone fin dal primo componimento, al desiderio di lode e di onore, la vita («ma di mia vita calme»): il dolore è per lui «immortale», le «ferme stelle», gli astri, generano influsso maligno e inesorabile. Il paesaggio si anima dei sentimenti inquieti del poeta, delle «pene ampie e profonde» sicché le onde sono «tempestose sonanti e torbide» e l’atmosfera del componimento VI (ed. Ponchiroli) è, nelle quartine, assai vicina a quella che troveremo nel leopardiano canto di Saffo alla luna. Il Petrarca si risente quando il poeta contempla l’immagine femminile, Vittoria Colonna, «di freddo armata adamantino smalto» e tanto lontana e distaccata da impedire che l’occhio mortale si spinga dove essa si trova (VII): «In se stessa raccolta, le divine | sue bellezze vagheggia, e non consente | ch’ardisca occhio mortal mirar tant’alto».

Le immagini più personali del Tarsia si aggirano intorno ai temi della solitudine, della natura aspra e selvaggia, dell’isolamento dell’uomo nella vita, della desistenza dall’azione per avversità del destino, della necessità di riparo per evitare la vendetta del cielo, della sera e del colore nero che possono improvvisamente incombere in qualsiasi ora del giorno. «Nudo e secco» è il monte un tempo fiorito, «tristo e sconsolato» il poeta che ora si «agghiaccia e torpe», ora da un «ermo colle» (è certamente la prima anticipazione del colle leopardiano) «sospira» (come farà il Foscolo) la sua donna lontana.

Il paesaggio ha sempre grande rilievo: «scoglio alpestre e rio», «fredda pietra», «alpestra salce», «loco alpestre ed ermo», «saldo e fermo scoglio» danno l’immagine di un mondo roccioso e duro, di una temperie aspra e possente. Il poeta ferma gli occhi sulle cose e scrive che ogni oggetto naturale può servire di paragone al suo amore (XVII): «[…] né fredda pietra od erba verde, | onda, rena, pratello, orto non pasce, | che a tristo esempio del mio mal non giri».

Nei componimenti in cui dialogano la ragione e il cuore, in cui paragona la Colonna alla pietra efestide che raffredda l’acqua bollente, alla pietra lidia o ad altre pietre non c’è mai ossequio cortigiano ma il linguaggio è vigoroso e altero («m’incende e consume», «il rio fato la m’invola», «bramo cangiarmi in scoglio»). Rime difficili sostengono le immagini con le quali si esprime il dolore (XX):

[…] ma il grave duol che il cor trist’ange
sì che il pianto è di lui sol cibo e gioco,
e la fiamma ov’ognor mi struggo e coco
da che il sol nasce e torna fuor dal Gange.

Si sente che Amore non è l’infante giocoso ma un fiero tiranno (XX): «e s’io cavalco, ei su gli arcion s’asside, | se l’onda solco, in su del legno istesso | mel veggio a fianco, e che di me si ride».

Amore pasce i suoi servi «d’aloe e fel», il poeta è «raggio ed ombra» della donna amata, nel componimento XXVII l’atmosfera di dolore è resa intensa con la variazione dei mali che lo fanno soffrire (doglia, aspre ritorte, greve peso, morte, aspro tormento, martir, pene acerbe, cordogli, vecchi affanni). Talvolta gli ardimenti concettuali preludono al secentismo, come nel componimento XXIX, in cui consacra alla Colonna un ideale tempio con mura «di desio possente e caldo», «d’onestate è il tetto», «le porte di pensiero ardito e baldo», «sepolcri sono indegnità e sospetto». Comunque presagi tristi vagano sempre nel cielo di questa accesa e vigorosa poesia: le sartie sono troncate alla nave, la gente stessa è sdrucita, la vita «istabil mare». Le immagini del mare, delle tempeste dei venti, della impossibilità di trovare pace per la dubbiosa vela ritornano con un insistente e strano significato esistenziale, alquanto vicino a quello che nel tormentato Novecento troveremo nelle poesie sul mare di un poeta suicida, Carlo Michelstaedter. Così scrive il Tarsia (XL):

sono scogli i desir, la vita è mare
ove si soffre una continua guerra,
e la nostra speranza è un fragil legno,
a cui si cela ogni benigna stella […]
comincio in tutto a disperar del porto
e a più soffrir del mio destin la guerra […]

Nessuna immagine lieta ritroviamo nelle rime. Se il poeta ricorda un luogo un tempo felice e pieno di diletti è per vederlo mutato (un castello in un carcere), come Galeazzo stesso è mutato. Castelcapuano è tale (XXXVIII):

or di paura, d’ira e di sospetto,
d’odio, di crudeltà solo ti vanti,
ed abisso di tenebre e di pianti
sei fatto, al popol vile anche in dispetto.
                 […] ed io nel tempo addietro
fui pur simile a te, se ben risguardo.

L’irrequietezza spirituale gli ha fatto desiderare di mutare luogo e, ritornando il poeta attraverso le Alpi gelide e nevose, sente quanto è cara l’Italia e ogni pur piccolo lembo di essa (XLI):

O felice colui che un brieve e colto
terren fra voi possiede, e gode un rivo,
un pomo, un antro e di fortuna un volto!
Ebbi i riposi e le mie paci a schivo
(o giovanil desio fallace e stolto):
or vo piangendo che di lor son privo.

Egli vorrebbe volgersi definitivamente verso la verità ma il pensiero «senza freno | nel verde fondo del suo error dechina» e basta un sasso o uno sterpo a ostacolare il cammino. Tre sonetti scritti per la morte della moglie Camilla sono animati, nel ricordo della donna vivente, da immagini luminose («viva già portavi i giorni | chiari negli occhi», «di beltà vivo oriente | fosti»). Prima del Tasso troviamo le più belle immagini della donna morta ma che vive quale stella o splendore ultraterreno (XLV-XLVI):

Camilla, che ne’ lucidi e sereni
campi del cielo nuova stella nasci […]
a me quando che sia pietosa vieni,
ma di sommo splendor t’involvi e fasci,
sì che a pena ti scorgo […]
non sono spenti i tuo splendori o smorti,
ma nel grembo del ciel fatti più adorni […]

La morta non è vista, come in tanta poesia umanistica del secolo precedente, estinta per sempre ma appare sopravvivente nei cieli dove affettuosamente il marito vorrebbe raggiungerla (XLVI): «Almen un di quei cerchi alti ed immensi | foss’io, vivo o dopo l’ultimo volo, | che ti portassi al cor per mille luci».

Il dolore del poeta qui appare veramente trasfigurato nel desiderio di distaccarsi per sempre dalla terra e di raggiungere l’amata (XL-VII): «Tempo ben di scovrir nel suo bel viso | altr’aurora, altro sole ormai sarebbe, | e riposarmi nel tuo grembo assiso».

In questi componimenti per Camilla morta la poesia di Galeazzo, corrucciata ed inquieta, sembra attingere una serenità superiore, che è quella della grande lirica.

Galeazzo di Tarsia s’innalza su tutti gli altri poeti calabresi del secolo ma nell’età compresa tra Galeazzo e Campanella si incontrano vari poeti i quali rimangono nell’ambito della poetica petrarchesca.

In qualcuno non manca un accento personale. Marco Filippi, probabilmente nato a Scilla intorno al 1520, fu uomo bizzarro, si allontanò dalla fede, vi ritornò, ebbe a subire persecuzioni dall’Inquisizione. Nel 1562 si trovava detenuto nel forte di Castellammare di Palermo secondo una lettera indirizzata al barone Gian Gaspare Fardella. Ebbe il nome di Funesto nell’Accademia dei Solitari di Palermo e scrisse sonetti, canzoni, ottave e canti in ottave. Nel 1597 furono ristampate in Venezia le sue Rime spirituali et alcune stanze della Maddalena a Christo, composte da M.F. detto il Funesto, stando in prigione, già pubblicate pure in Venezia nel 1580.

Egli scrive di avere cantato «fallaci et amorosi affanni», avverte altrui della fallacia delle apparenze («Si dona il fel sotto benigna scorza. | E l’acqua, ove men grida, è più profonda») e appende la cetra, motivo devozionale ma non comune, al chiodo che trafigge i piedi di Cristo in croce. L’accento spirituale e morale è dominante nelle rime del Filippi.

Di suo figlio Ottavio, anche egli poeta e nato a Bagnara, non ci hanno tramandato notizie gli storici. Sappiamo che fu a Roma nel 1597 per terminare gli studi di legge e fu, come il padre, inviso all’Inquisizione finché «pentito del disprezzo avuto per la religione, divenne fervido devoto di Dio». Di lui ci rimangono pochi componimenti che si trovano nel volume del padre e di suoi amici Lettere sopra il «Furioso» dell’Ariosto in ottava rima (1584). Il patrimonio poetico di Ottavio Filippi è molto scarso ma, come ha scritto l’editore ed illustratore di essi,

per la sincerità e il calore che li ispira, se non per la forma spesso non sufficientemente levigata e sonora, sono bastevoli a farci tenere in considerazione l’autore e a farcelo distinguere nella serie interminabile dei rimatori cinquecenteschi (L. Perroni-Grande).

Anche Ottavio Filippi narra il suo itinerario dalla vita falsa alla vita verace. Egli descrive il «sogno falso e breve» avvolto in «fumo e nebbia et ombra» e spera di potersi volgere verso il «diritto sentir». Il «laccio», il «serpe» sono gli inganni che il poeta si è lasciati dietro correndo verso la pietà di Cristo affisso «nel legno» a cui chiede che siano serenate le tempeste:

Tu sol puoi serenar l’horrido verno,
render tranquillo il mar, fermare i venti,
che li minaccian sempre e danno e scorno.
la notte ond’io vaneggio in lieto giorno
Tu cangiar puoi, Tu far miei spirti intenti
al Tuo santo voler stabile e eterno.

Il contemporaneo Giovanni Alfonso Montegna di Maida conobbe a Napoli la poetessa Laura Terracina alla quale dedicò un sonetto petrarchesco in cui sono elencati gli attributi della donna convenzionalmente bella, ormai un manichino privo di varianti estetiche: «bionde chiome, anzi crespe, et lucido oro», «vaga serena fronte», «neri et begli occhi», «soave angelica parola, | cagion per cui m’incenerisco e moro», «delicati rubini et preziose | perle», «catene dell’afflitto core» sono luoghi comuni che in età nella quale il petrarchismo è ormai scosso da nuovi fremiti, appaiono cristallizzati e spenti.

Di Galeazzo Degli Angeli di Terranova (Cosenza) abbiamo un solo sonetto nella raccolta di rime per la Castriota. Giovanni Antonio Capialbi nella sua patria, a Monteleone, nella seconda metà del secolo, fondò l’Accademia degli Incostanti Ipponesi, dopo aver studiato a Napoli. Scrisse in latino su argomenti di diritto, di filosofia, compose versi di carattere petrarchesco che hanno una certa musicalità derivante da un sentimento di malinconia. Cantò il desiderio di solitudine in mezzo alla natura.

Anche in altri luoghi della Calabria si aprono accademie, a Maida quella degli Inquieti per opera di Pietro Paladino, a Rossano quella dei Naviganti. Talvolta le accademie portarono nuovi soffi di vita, avvicinando al sapore scientifico o riportando la letteratura alla semplicità e compirono opera di sistemazione e di riordinamento.

Riordinatore erudito, critico, filosofo e anche poeta fu Sertorio Quattromani che nacque da famiglia patrizia nel 1541 a Cosenza e fu conosciuto a Roma dal Caro, da Paolo Manuzio, Francesco Patrizi, da molti altri letterati di vari luoghi e con essi ebbe varia e vivace corrispondenza. Studiò i classici, la lingua provenzale, poi fu a Napoli dove ebbe la protezione del duca Ferrante Carafa. Quale filologo tenne a precisare i debiti del Petrarca verso la poesia provenzale anticipando il riconoscimento della critica odierna verso la matrice provenzale di tutta la lirica amorosa occidentale. Studiò con molta precisione la metafora in un suo trattato in cui notò quali sono le metafore proprie, quelle classiche e quelle da evitare, censurando letterati e poeti i quali usarono metafore improprie o innaturali. Alle soglie del Seicento in cui le metafore consumeranno il sole, il Quattromani appare osservante di un gusto equilibrato ed elegante. Egli si fondava soprattutto sulla naturalezza poiché aveva intelletto anche filosofico. Infatti, accademico cosentino col nome di Montano, diffuse la filosofia di Bernardino Telesio (La filosofia di B.Telesio ristretta in brevità, Napoli 1589) e contribuì alla restaurazione dell’Accademia Cosentina. Poligrafo di vasti interessi, esercitò l’acutezza della mente mediante la filologia e la critica; pubblicò una traduzione dell’opera del Cantalicio sul Gran Capitano (Napoli, 1607), un’esposizione delle rime del Della Casa (Napoli 1616) apparve postuma, più tardi ancora apparvero la traduzione del quarto libro dell’Eneide, l’epistolario. Matteo Egizio che scrisse la vita del Quattromani, ne pubblicò nel 1714 il trattato sulla metafora, studi su Orazio, ecc. Si conoscono di lui pochi versi i quali hanno una forte struttura e dignità di stile, come i primi versi del sonetto in cui esalta la vittoria degli spiriti chiari e onesti su quelli che insuperbiscono legati «dal proprio amor» e che vedono solo per immagini false. Morì intorno al 1606.

Nipote del Quattromani fu Lucrezia Della Valle, cosentina e iscritta all’accademia della sua città. La Della Valle scrisse dei versi che andarono dispersi, un sonetto che possediamo è enfatico e oratorio. Morì nel 1602.

Il Quattromani dimostrò amicizia anche per Francesco Antonio D’Amico, patrizio e letterato cosentino, vissuto tra il Cinque e il Seicento. A lui, più anziano di qualche anno di età, il Quattromani inviava suoi versi perché li «racconciasse», indirizzava lettere delle quali nove ci rimangono dal 1601 al 1603. Cugino del Quattromani fu Giovan Paolo D’Aquino, accademico, seguace e fedele di Telesio in occasione della cui morte pronunziò una Orazione malfamata dallo Spiriti e rivalutata dal Galati. Il D’Aquino «doveva ben possedere dei meriti non superficiali per avere la stima del Telesio e di quell’insoddisfatto spirito corrosivo che fu il Quattromani» (Galati). Sia del D’Amico che del D’Aquino non possediamo alcun sonetto di sicura attribuzione:

Erano uomini – scrive il Galati che illustrò con molta sagacia i due letterati e ne ha ricostruito la personalità da lacerti di testimonianze – allora, che amavano la scienza, il bello e la vita, non per la fama che potesse loro venire presso i futuri, ma per il godimento spirituale che davano: e anche in questo, forse, si rivela un po’ della natura inquieta e altera dei calabresi.

Alla schiera dei verseggiatori petrarcheschi appartiene Scipione Pascali, nato a Cosenza nel 1580 e morto nel 1624 nel vescovato di Casale Monferrato che gli era stato procurato dal cardinale Gonzaga in premio di una fortunata missione di ambasceria in Spagna presso Filippo III. Nei suoi versi (canzoni, stanze, sonetti, madrigali, pubblicati da Nicola Amantea a Venezia nel 1703) si risentono gli accenti del Petrarca, soprattutto in qualche componimento amoroso in cui si ritrovano le «lucide stelle», l’«alto splendore» ma anche qualche ardimento come le «non tarde piume» del pensiero. In un sonetto per la morte di una donna giovane c’è qualche accento di maggiore sincerità.

La cosentina Elisabetta Beccuti, nata nel 1576, fu educata da Francesco Muti di Aprigliano. Nel 1594 sposò Gian Maria Bernaudo, letterato e poeta di Cosenza, il quale nel 1607 pubblicherà contro di lei un libro di prosa e versi intitolato La zotica. Si trovò sempre in discordia col marito al quale premorì nel 1627 e contro il quale scrisse: «Se con tal serpe velenoso e rio, | un destino crudel mi accoppia e ammassa, | vuol dire che un vil rettile son io».

In onore di D. Giovanna Castriota, figlia di Ferrante Castriota e discendente di Giorgio Castriota Scanderbeg nonché moglie di Alfonso Carafa e madre di Ferrante duca di Nocera nel 1585 si stamparono Rime et versi in lode (in lingua toscana, latina e spagnuola) a cura di Scipione de’ Monti, letterato di Corigliano che aveva già scritto un poema su Giorgio Scanderbeg. La raccolta apparve a Vico Equense, Giovanni Giacomo de’ Rossi vi aggiunse notizie biografiche relative agli autori ma il maggiore peso nell’allestimento fu di Sertorio Quattromani del quale probabilmente sono le poesie poste sotto il nome di Incerto. La scelta elogiativa ha solo valore di omaggio (una eccezione è la poesia latina di Telesio tradotta in italiano dal Quattromani); ricordiamo alcuni autori calabresi: Alfonso Marzano, Celso Molli, Fabrizio Della Valle (nipote del Quattromani), Francesco Vitale, Giovanni Alfonso Montegna, Giacomo Di Gaeta, Giulio Colovraro, Adriano Gugliemo Spatafora, Manilio Caputo, Marcello e Peleo Firmo, Rocco Morelli, Giovanni Maria Bernaudo e molti altri.

Il lessico del petrarchismo platoneggiante è il veicolo della visione idealistica e convenzionale, è la strada maggiore per la quale la gran parte dei rimatori si avvia. La lingua della prosa è il toscano letterario che dai primi del Cinquecento si diffonde fra le persone colte, si trovano influenze napoletane del linguaggio curiale, notarile, burocratico ma in definitiva gli usi locali curiali avranno come loro mezzo il calabrese.

A metà del secolo e all’area meridionale della Calabria appartengono queste ottave popolari derivanti da un gruppo di sedici ottave, fatte conoscere da Franco Mosino e che trattano di argomento amoroso:

Si l’arbori sapessiro parrari
li frondi chi chi su fussiro lingui
la inca fossi l’acqua dilo mari
la terra fossi carta et l’erbi pinni
li toi bellizi non porria contari
quando naxisti Dio in braza ti tinni
la tua belliza para non po adxari
chi dalu chelu la gratia ti vinni.
Sia beneditta Tura chi naxisti
Tura et lu puntu che ndi fosti creata
sia benedittu el latti che bevisti
la fonti dove fosti battizata
sia benedetto el letto che giacisti
et la to matri che t’à notricata
sia benedetto chi mi promettisti
amuri di tantu tempo addisiata.
Stenta et affanna chi lu to stentari
vinirà tempo ti allegrimi tuttu
et non volili desiando amari
a cui non t’ama et di tia non fa muttu
perdimi la robba et li dinari
restirai in terra consumato et struttu
chidu arburu ti forcza di zappari
chi recanuxi chi ndi mangi fruttu.

Ritorniamo al Quattromani per notare attraverso le sue lettere che ormai l’unificazione linguistica era stata avviata e che anche il linguaggio critico comincia ad avere i suoi strumenti tecnici. L’attività di Quattromani, già indicata, è un punto di riferimento chiaro. Il Discorso intorno alle metafore in quanto testo scritto non ebbe influenza nel dibattito del suo tempo perché apparve postumo per opera dell’Egizio. I sostenitori, nel dibattito, del valore anche intellettuale, conoscitivo della metafora nel Cinquecento furono il Robortello, il Castelvetro e il Vettori; il Quattromani esamina la metafora in modo teoricamente un po’ incerto nel quadro della teoria dell’ornato. Ai valori intellettuali ripresi dai tre commentatori della poetica di Aristotele si è richiamato nella sua Storia del gusto (1971, postumo) Galvano Della Volpe esaminando le istanze storico-razionali dell’arte ai fini di una fondazione di una teoria sociologica, materialistico-storica, marxista della letteratura e delle arti. Quattromani fu umanista ma telesiano, differente da Aristotele almeno per quanto riguarda la tragedia, antipetrarchista, uomo di gusto, letterato della tendenza critico-letteraria dell’umanesimo ma soprattutto esegeta di testi, confrontatore, dotato di sensibilità artistica derivante anche dall’educazione alla traduzione dai latini (Orazio, Virgilio, con eleganza ma con amplificazioni e parafrasi). Pur essendo un telesiano i confronti di Quattromani critico letterario non sono tra mondi poetici concretamente storici ma tra forme, tra rapporti di coerenza stilistica: la natura non entra nella critica quattromaniana ma era anche prematuro il tempo.

Parrasio e Antonio Telesio raccolsero intorno a sé i giovani umanisti cosentini, furono loro di aiuto fuori della patria e crearono una scuola che perpetuò lo studio dei classici. Antonio Telesio nacque a Cosenza nel 1482, fu zio di Bernardino che istruì presso di sé iniziandolo allo studio dei classici. Antonio, umanista al servizio della Curia pontificia, si trovò a vivere nei centri intellettuali più avanzati e sensibili, per insegnare. Fin dal 1518, quando Bernardino aveva nove anni, Antonio è a Milano, nel 1521 è a Roma, quindi a Venezia: lo zio e il nipote durante anni di grande crisi politica e sociale vivono in centri di cultura e riescono a cogliere i motivi più storicamente importanti del loro tempo, ciascuno secondo la propria attitudine e sensibilità. Pare che Bernardino durante il sacco di Roma sia stato perfino fatto prigioniero. Antonio ritornò in patria accolto da grande fama e il Casopero per l’occasione esalta Cosenza: «[…] te gremio fovit genitoribus ortum | patriciis, et blanda aluit, purumque; magistris | grammatices tribuit, qui caeca enigmata norant».

Il Casopero canta anche la pace che il poeta avrà nella sua città e nella sua casa:

[…] principio divos patriamque tot annis
desertam miti facilis sermone salutas,
excusaque tuos obitus, mox laetus avita
tecta subis, gaudesque aula requiescere cara.

Antonio scrisse versi castigati, con forma derivata dalla più pura latinità, intorno a semplici soggetti che trattò con vera spontaneità: la lucerna di terra cotta che gli consuma l’olio quando egli vuole poetare i fanciulli che scherzano con le lucciole, ecc. Commentò Orazio e lasciò anche una tragedia, Imber aureus (1529) in cui, seguendo la mitologia, fa trasmutare Giove in pioggia di oro per godere le grazie di Danae, figlia di Acrisio. Il Telesio morì a Cosenza nel 534.

Alla scuola di Parrasio appartiene anche Francesco Franchini, nato a Cosenza o nel cosentino nel 1500, poi recatosi a studiare a Bologna e nel 1541 al seguito di Carlo V alla tentata conquista di Algeri. Nell’elegia De naufragio il Franchini ricorda il pericolo corso durante l’impresa, quando la nave su cui si trova il poeta è infranta, capovolta la poppa, rotti l’albero e i remi.

Il Franchini entrò poi a Roma nella corte dei Farnese e dal cardinale Alessandro, del quale era familiare, fu nominato vescovo di Massa Veternese e Piombino. Morì a Roma nel 1559 e fu sepolto nella chiesa della Trinità dei Monti dove fu dedicata un’epigrafe «prudenti atque viro atque venusto poetae, qui Phoebi Martisque castra secutus retulit ad patrios bina trophea lares».

Il Franchini ebbe amici di giovinezza gli umanisti cosentini del cenacolo parrasiano4 e trovandosi a Roma invita gli amici, tra cui Bernardino Telesio, a una cena imbandita con pietanze paesane «ut toti cives in alieno solo una coniuncti Romae Cosentiam videre videamus». Al Casopero, stretto dal bisogno dopo il sacco di Roma, fornì i mezzi per il ritorno in Calabria, con gli amici si trovò anche a Napoli, non pare sia ritornato in Calabria per vivervi. Il Franchini nel 1554 pubblicò i Poemata che vennero iscritti nell’Indice dei libri proibiti per qualche verso amoroso e satirico; a torto il Tiraboschi definisce l’autore «troppo libero e immodesto» ché si trattava di versi giovanili e la sensualità era comune alla letteratura umanista del tempo. Il Croce ha esaminato particolarmente l’umanista calabrese e, pur notando nel suo studio che la moderna poesia in latino «salvo rare fulgorazioni, ha sempre della traduzione», cioè è forma riflessa, letteratura, afferma che il Franchini non verseggia per mera virtuosità ma che in quel verseggiare «esprimeva l’animo e la vita sua». Franchini cantò due donne, Leucia e Himera. La prima si ammala e muore. «Sis felix, cui viva pari, mea Leucia, amore | vivebas, vives mortua, vivet amor».

I Poemata del Franchini danno anche una serie di caratterologie di popoli d’Europa e in essi si esprime l’idea di un primato italiano: «coetera gens iuga ferre potest, non Itala tellus, | imperiis assueta, polo et diis aemula tellus».

Franchini ha viaggiato per Spagna, Francia, Germania, Fiandre. Con l’umanista calabrese avvertiamo di trovarci di fronte a uno spirito rinascimentale che, uscito dalla sua regione, ha acquistato vasta esperienza letteraria e umana dopo aver conosciuto la vita della milizia e del clero, giungendo ad alti gradi ecclesiastici. Il Franchini è l’umanista calabrese maggiormente immerso nella vita di una splendida corte rinascimentale. La sua inclinazione fu quella di trasfigurare la realtà, di idealizzare la dinastia e il costume con la parola raffinata: la corte è celebrata in un’atmosfera di grandiosità, di rapimento contemplativo, di creazione di miti che è la prosecuzione della volontà stessa farnesiana di magnificenza. I personaggi della corte diventano eroi, dei, vivono in un sovramondo di virtù, liberalità. Lo stesso poeta, consapevole di appartenere a una società colta, umanistica, esalta i suoi grandi sodali, letterati e principi (Bembo, Vittoria Colonna, Caro, Della Casa, Molza, Antonio Cantelmo, Bernardo Tasso, Fracastoro, Flaminio ecc.), in una sorta di trionfo della gloria e della fama. Sua patria è il mito e il personaggio di corte è collocato, così Marcello Turchi, «in un’atmosfera meravigliosa ed eroica, a cui non appare estranea una raffinata compiacenza per ornamentazioni, descrizioni ed inserzioni ispirate ad un raro, peregrino edonismo figurativo e verbale». Franchini è affascinato da quel mondo chiuso nella «splendente fissità di emblema», quasi iperuranio. Anche la Calabria è per il poeta un mito letterario. Nel poemetto Manna (Giove chiede a Giunone, sua sorella, di diventare sua sposa, come Saturno ha sposato Rea; le nozze avvengono in una cornice mitologica e sensuale) la manna è il sudore-rugiada che scende sulla terra calabrese rendendola feconda, terra un tempo felice e fiorente su tutte le altre nel mondo. Attraverso il mito il Franchini può dimenticare la ben diversa realtà, quella di una Calabria dominata da regali e tyranni. La sua è una visione di classe, aristocratica, cortigiana; ma di commesso dell’aristocrazia.

Al discepolato ideale del Parrasio appartiene Giano Teseo Casopero nato a Cirò il 10 aprile 1509. Studiò a Rovito, sotto la guida di Niccolò Salerni che dopo avere insegnato a Roma, Pavia, Napoli, era ritornato in patria. Il Salerni insegnò il latino a Casopero il quale fu avviato dai familiari allo studio del diritto. Sul Casopero ha scritto una equilibrata monografia Gregorio Cianflone il quale ci informa dell’amore di Casopero per Fastia, una donna sposata, dell’amicizia con Antonio Telesio e Luigi Giglio. Nel 1532 il Casopero si reca a Napoli dove incontra i cosentini umanisti colà dimoranti, Franchini, Telesio, i Martirano, quindi, imbarcandosi a Crotone, va a Padova per studiare legge. A Padova ebbe come maestri Mariano Socino e Giovanni Antonio De’ Rossi ma continuò a coltivare gli studi umanistici tenendosi stretto, nelle sue prose, a Cicerone, intorno alla cui prosa fervevano in quel tempo vaste controversie. A Padova conobbe anche Paolo da Montalto, calabrese di Squillace, che sarà il suo primo biografo, in quella città si laureò nel 1537 ma dopo tale data mancano altre notizie di Casopero né sappiamo quando e dove sia morto.

Il Casopero scrisse gli Amores per Fastia (1535), Sylvae (1535) contenenti elegie, epigrammi, compose anche epistole, orazioni e due carmi politici. Virgilio e Tibullo si avvertono dietro il giro ritmico delle Sylvae, talvolta Ovidio. Indubbiamente gli aggettivi esornativi sono convenzionali e letterari, si avverte che i componimenti appartengono alla letteratura e non alla poesia ma l’esercizio letterario è dignitoso, fa parte di un devoto amore verso l’umanesimo come eleganza di atteggiamento spirituale di fronte alla vita. Nella letteratura umanistica è difficile ritrovare profondità di visioni e ricchezza di idee, l’umanista pare appagarsi della bellezza formale che alita sui versi, di solito c’è nel poeta la capacità di comporre un quadro sereno, di effondere sentimenti lievi e misurati. Ma l’imitazione formale restringeva in confini limitati la libertà espressiva. Si osservi lo sguardo di contemplazione del Casopero che descrive la pace raggiunta dopo il trattato di Cambrai:

Vir mulierque canat, sensibus sociata juventus
argutum pulset festivo sedula plectro
barbitum, ad astra poli numeros jactetque canoros,
perque domos et tempia deum predivite luxu
fulgida stemantur rutilis aulaea figuris.

Casopero negli Amores canta una figura di donna inquadrata in un piccolo mondo paesano, una figura di donna bella per i capelli biondi e gli occhi neri, le labbra rosse. Da Fastia sembra prendere luce ogni cosa:

Panditur et mundi facies, oscuraque cedunt
nubila, quumque profers, Fastia, poste caput;
clauditur atque atra nitidum caligine coelum
tecta refers intra cum tua mox faciem.

A Fastia che si reca al santuario di Loreto per implorare la guarigione del padre il poeta invia gli auguri di un felice viaggio, certamente difficile mentre i Turchi infestano le coste della Calabria.

Nei libri degli Amores Casopero sa esprimere in semplici versi sentimenti di amore appassionato ma anche contenuto e riesce a rendere situazioni concrete e vicende minute in modo da comporre un canzoniere garbato e non indegno di avere un suo piccolo posto fra quelli dei contemporanei5.

I fratelli Bernardino e Coriolano Martirano furono tra i principali animatori dell’umanesimo calabrese. Ambedue cosentini, il primo fu segretario generale del Regno di Napoli e lo si incontra sempre fra gli studiosi calabresi che passano da Napoli o a Napoli si soffermano per studiare. Coriolano, nato nel 1503, fu vescovo di S. Marco Argentano, non di Cosenza – come fa osservare il Galati nel suo studio del 1962 – e delegato al Concilio di Trento. L’aspetto principale della cultura di Martirano è il suo ellenismo, il suo amore per la tragedia greca sentita come opera religiosa sicché egli rifece latinamente otto tragedie greche (1556) pubblicate insieme con la versione di due commedie di Aristofane e di qualche passo di Omero. Scrisse anche una tragedia originale, Christus (1542), sul modello delle tragedie greche. Nelle forme della tragedia antica egli riuscì a fondere la materia sacra, sostituendo al modello di Seneca quello di Euripide. Il Christus ha la nudità delle tragedie greche e vuol imprimere l’idea del sublime religioso: l’autore si vale del coro che parla in prima persona. Con il Martirano, ha scritto il Toffanin, «il cristianesimo torna alla tragedia greca e forse con una spontaneità che non sarà più raggiunta dai successori volgari». Alle sacre rappresentazioni il Martirano era venuto sostituendo, nella sua diocesi, la sua tragedia sicché a lui viene dato oggi dal Toffanin il nome di «Vida dell’ellenismo». A noi pare che il Martirano sia importante, con il suo ellenismo, per studiare momenti del manierismo e del passaggio all’arte del Seicento. Il Galati, analizzando il Christus, ha messo in rilievo l’originalità dei caratteri di Pilato e di Giuda, costruiti con una psicologia complessa; e del Christus ha pubblicato una traduzione della fine del Settecento. Il Martirano morì nel 1558.

Nei patetici versi di Coriolano Martirano intrisi di sentimento religioso si nota che ci volgiamo verso un’altra epoca, quella del secondo Cinquecento in cui incontriamo Giano Pelusio nato a Crotone nel 1520. Il Pelusio studiò a Cosenza con Giovanni Paolo Cesario di Castiglione (figlio di Giovanni Antonio) che insegnò anche a Roma e scrisse versi in varie raccolte; quindi fu a Roma, a Parma, precettore di Ranuccio e Odoardo Farnese e pubblicò versi latini indirizzati a Bernardino Telesio, Giovanni Grasso, Francesco Vitale, ecc. Fu amico di Bernardino Rota, di Giovanni Battista Accursio, morì a Roma nel 1600.

La tradizione latina arresta il bizantinismo alle porte di Cosenza sicché nella città – che era stata a lungo anche longobarda – si sviluppa una cultura umanistica che rappresenta un aspetto importante del Cinquecento calabrese e che ha la sua matrice nell’Accademia Cosentina.

Quest’Accademia nasce umanistica ma si adegua con serietà al progresso dei tempi senza indulgere alla pura erudizione, al vuoto astrattismo, al formalismo poetico. Di essa fu membro assai influente Bernardino Telesio il quale poco dopo la metà del secolo, ritornato in Calabria, ne accentua l’indirizzo scientifico e filosofico tentando di trasformarla in un centro di ricerche e di esperienze naturali. Come Telesio imprime una svolta alla cultura aristotelica e alla fisica tradizionale fondata su ipotesi aprioristiche, così anche l’Accademia Cosentina non indugia in indirizzi cristallizzati e da essa si dirama una tradizione di pensiero aperto verso i tempi nuovi che felicemente si incontrerà con la concretezza moderna.

Alla prima Accademia era stato legato Bernardino Martirano, fedele seguace del Parrasio del quale ha pubblicato, postumo (1532) il commento all’Arte poetica di Orazio. Bernardino era nato a Cosenza probabilmente nel 1490. La presenza del padre Giambattista – reggente a Napoli sotto Carlo V – spianò la strada ai figli: Coriolano a ventisette anni è nominato vescovo da Clemente VII; Bernardino è avviato alla carriera politica della quale fa parte anche la vita militare sicché Bernardino per essere maggiormente organico al mondo spagnolo, dal 1521 al ’29 milita nell’esercito imperiale. Diventa, così, amico del Conestabile del Borbone, capo delle milizie imperiali, ed è al suo fianco durante il sacco di Roma. In tale occasione Bernardino Telesio fu fatto prigioniero e venne rimesso in libertà per intercessione del Martirano. Morto il Conestabile passò al servizio di Filippo d’Orange dal quale ebbe in dono case e terreni nel napoletano per i suoi servizi. Durante il vice-regno di don Pietro di Toledo la sua ascesa fu inarrestabile: nel 1529 è segretario del Regno, nel 1532 compra da Ferrante Spinelli per cinquemila ducati la terra di Fuscaldo, nel 1535 il padre compra Ajeta e Tortora, dal 1532 fino alla morte Bernardino è consigliere e segretario del Regno di Napoli. Nel viaggio di Carlo V verso Napoli l’Imperatore si soffermò per tre giorni nella villa di Pietrabianca (ribattezzata grecamente in Leucopetra) presso Portici che apparteneva a Bernardino. Nel 1537 Bernardino sostituisce Enrico di Nassau nella carica di protonotaro. La data della sua morte è incerta, sulla sua tomba in S. Domenico Maggiore la data è il 1558.

Leucopetra era una villa sfarzosa per architettura, decorazioni, affreschi, iscrizioni, posizione; fonti e statue l’adornavano, una lapide ricordava la sosta di Carlo V; la mitologia dominava negli affreschi, Aretusa di marmo era coricata accanto a una fonte. Dopo mille anni da Cassiodoro e dopo i feudatari delle case Ruffo e Sanseverino (e di qualche altra) è il primo calabrese doviziosamente ricco che si incontra e che pone la propria villa come sede di incontri di cultura e di arte, perché Bernardino ivi creò una vera accademia in cui si incontravano dotti e artisti, napoletani e calabresi. Scipione Capece, Giano Anisio vi furono assidui nonché il Rota, Agostino Nifo, Luigi Tansillo che dedicò al Martirano le sue Stanze, il Franchini che sarà militare nell’esercito imperiale e vescovo, Antonio Telesio, Venanzio Nigro. Per trent’anni la Leucopetra ebbe una funzione culturale come era avvenuto per la villa di Sannazaro che due secoli più tardi rivivrà nella funzione di luogo di incontro di cultura con Antonio Di Gennaro duca di Belforte, arcade e amico degli illuministi, di poeti come Aurelio Bertola.

Bernardino compose due poemetti mitologici in ottave, l’Aretusa (tra il 1535 e il 1540) e il Polifemo (intorno al 1540). Il primo ha come materiale Ovidio delle Metamorfosi, ha una sua leggerezza musicale; l’autore ha dentro di sé la versificazione rinascimentale, il ritmo ariostesco ma con un eccesso di liquefazione lirica e lessicale (soprattutto nella trasformazione di Aretusa in fonte: «spoglia | il corpo, e restan sol la pelle e Tossa | […] perduta avendo ogni sua forma umana | ivi piangendo divenne fontana»). Narciso è tramutato in fiore. Nel poemetto è ricordata l’impresa africana di Carlo V.

Il Polifemo fu pubblicato da Francesco Fiorentino nella rivista «Telesio» derivando il testo da un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli che lo attribuisce a Coriolano Martirano; ma altro manoscritto napoletano lo stesso testo con qualche variante attribuisce a Bernardino (esistono altre prove storiche relative all’attribuzione a Bernardino). L’operetta è mitologica, deriva pur essa da Ovidio; un esame stilistico attento alle dissonanze di gusto e di stile può indicare nell’operetta i primi segni del manierismo che immette nei versi il piccolo realismo (Polifemo che getta nel fuoco il montone e la cagna) o il tentativo del paulo maiora con Polifemo che afferra il cugino Vulcano e lo getta a Pozzuoli o con Giove che fulmina Polifemo e lo fa inghiottire dalla terra nel punto in cui essa fendendosi fa emergere un monte.

Il fratello Coriolano, lo abbiamo accennato, nel Christus giunge al manierismo per la via della drammatizzazione, la via reale, controriformistica per moralizzare suscitando emozioni e commozione, pentimento e confessione. Coriolano successe al fratello nell’altissima carica di segretario generale del Regno.

Di Giandomenico Scursi nato a Monteleone nel 1571 dà le prime notizie Vito Capialbi parlando dell’Accademia degli Incostanti Ipponesi nata nel 1570 per opera di amici e discepoli del Minturno. Tutte le altre sono state ricostruite con molta cura da Gaetano Scalamandrè il quale ha pubblicato (1993) il Liber carminum di Scursi con traduzione a fronte, da un manoscritto della biblioteca di Vito Capialbi. Lo Scursi, che aveva ricevuto a Monteleone una buona educazione culturale, sui venti anni è a Napoli; in séguito a una rissa e alle conseguenze fu bandito da Monteleone e lo ritroviamo a Napoli, nel 1595 al servizio di un suo concittadino avvocato. Nel 1598 celebrò in versi il morto Filippo II, nel 1599 – forse per un indulto – è a Monteleone medico fisico. Lo Scursi scomparve tra il 1629 e il 1637. Dopo la sua morte Cesare Bisogni, che ebbe fra le mani il manoscritto, si appropriò di una ventina di carmi dello Scursi, modificando (nel caso dei carmi funerari) il nome del destinatario. Lo Scursi possiede un armamentario linguistico scolastico (poi diventato letterario), attinge molto ai miti, alla mitologia, deriva costrutti e intonazioni da Tibullo, Ovidio, Virgilio, Orazio, Pontano. Il tono più costante è la gravità che induce all’amplificazione, alla reboanza; i versi risuonano, non hanno profondità intellettuale. Non si tratta di poesia ma di imitazione e di risonanze: la maggior parte dei componimenti è di carattere funerario, una vera alluvione mortuaria, molti altri sono convenzionali e occasionali o encomiastici.

Pietà e unzione è in diversi componimenti religiosi di Scursi. I suoi difetti sono comuni a diversi verseggiatori in latino, per lo più disimpegnati e chiusi al vivere interiormente la vita contemporanea. È il caso di un verseggiatore esaltato da diversi illustratori, Giovanni Paolo (Giano) Cesario di Castiglione Cosentino (1506), morto a Roma nel 1568. Suo padre, Giovanni Antonio, era buon letterato e in rapporti con il Parrasio. L’umanesimo di Giano è quello del Quattrocento, l’imitazione pura degli antichi sia dal punto di vista stilistico che da quello etico, una imitazione anacronistica nella fase creativa del Rinascimento. Cesario rimane un attardato imitatore di Cicerone, ripetitore di luoghi comuni che gli echeggiatori umanistici si porteranno dietro per secoli nella scuola. Cesario ripete in prolusioni, epistole, dedicatorie, dialoghi sugli studi i detriti del formalismo. Altra cosa è il classicismo che è fondato su sentimenti civili e non sulle parole vecchie. Non per nulla Cesario preferiva l’oratoria alla poesia, non per nulla venne schidionato da Nicolò Franco. Gli autori da lui imitati sono quelli che abbiamo visti imitati dallo Scursi: per giunta il passatista Cesario tendeva al misticismo. Come avrà fatto a «guidare», come dicono gli storici, Giano Pelusio?

Luigi Giglio (o Lilio), nato a Cirò intorno al 1510, amico di letterati e umanisti, rappresenta il nuovo avviamento scientifico. Studiò medicina a Napoli col fratello Antonio ma si occupò anche di astronomia. Egli deve essere considerato come il vero ideatore della riforma del calendario operata da Gregorio XIII ma morì (1576) lasciando inedito il Compendium novae rationis restituendi Kalendarium che l’anno seguente fu presentato dal fratello Antonio al pontefice. Questi nominò una commissione (della quale facevano parte il Sirleto, Antonio Giglio, il gesuita C. Clavio, ecc.) per esaminare le proposte le quali furono infine accolte da Gregorio XIII. Di lì a poco fu promulgata con una enciclica la correzione del calendario.

Anche gli studiosi di medicina concorrono al rinnovamento della cultura. Tra essi ricordiamo: Giulio Iasolino, studioso di osteologia e balneoterapia, Giovanni Battista Di Gennaro, Vincenzo Lauro, i quali vissero fino agli ultimi decenni del secolo e qualcuno fin oltre.

Tra i commentatori cinquecenteschi dell’Orlando Furioso ha il suo posto il reggino Simone Fornari, autore di una Sposizione sopra l’Orlando Furioso (Firenze 1549) e indagatore della «dolcezza» della lingua ariostesca, della sua eleganza, del «temperamento medio» del poema. Il Fornari ha studiato anche la formazione di parole nuove da parte dell’Ariosto: le nuove parole non hanno l’asprezza di quelle di Dante, piacevolmente sono anche trasformate le parole straniere. Nel suo studio sono esaminati luoghi che l’Ariosto imita da altri poeti, sono esposte e spianate le parti storiche, geografiche e favolose del Furioso.

Alla storia della cultura del Cinquecento appartengono l’architetto Tiberio Alfarano, Bartolomeo D’Aquino (Maida, c. 1520 – c. 1590) che professò filosofia ed ebbe l’amicizia di Tommaso Campanella, Giovanni Marco Aquilino di Corigliano che insegnò giurisprudenza nello studio napoletano, Giovanni D’Anania (n. a Taverna e qui morto intorno al 1609), studioso di cosmografia nella Universal fabrica del mondo.

Nel secolo XVI continua il fenomeno dell’esodo degli intellettuali della Calabria, un esodo necessario, forse inevitabile, certamente fecondo e sofferto. Molti uomini di cultura sono costretti, per aiutare la propria formazione mentale, a cercare altre fonti oltre quelle limitate della regione diventata anche insicura per le frequentissime scorrerie saracene e dominata dai baroni prepotenti e autoritari. Con la diaspora dalla regione l’intellettuale saggia le proprie forze e, quando perviene a cogliere i filoni della cultura che ha sapore di verità, rafforza la propria individualità e diventa egli stesso un apostolo più che un sapiente: sapienza senza virtù (che può anche essere errore, naturalmente) sembra non sia possibile alla fierezza del calabrese cui la naturale indole spinge a essere confessore e martire di una fede.

Bernardino Telesio, nato nel 1509 a Cosenza, studia al seguito dello zio Antonio, poi da solo a Padova, cittadella dell’aristotelismo e ivi si laurea nel 1535. Aveva ricevuto anche una educazione umanistica sicché scriveva in un latino corretto e conciso, con una breviloquenza che era il segno di una mente scientifica disposta alla precisione e al rigore. Compose anche un Carmen ad Ioannam Castriotam (pubblicato nel volume di rime e versi in onore di Giovanna Castriota) e qualche altro scritto in latino; ma il principale interesse di Telesio si volse agli studi filosofici e matematici, alla scienza ottica, alle scienze naturali, ai problemi di ricerca fisica. Poté valutare i limiti del metodo aristotelico che era adoperato da dotti padovani per risolvere i problemi della conoscenza naturale e poté constatare che quel metodo era ormai formalistico sicché per ricercare la verità egli, ritornato a Cosenza, oppose allo scolasticismo aristotelico le esigenze e il metodo del suo sperimentalismo. Nel 1565 pubblicò i primi due libri del De rerum natura iuxta propria principia che soltanto nel 1568 apparve completo nei suoi nove libri. Fra il 1563 e il 1587 egli visse a Napoli e poté fare conoscere la sua dottrina negli ambienti colti.

L’importanza filosofica di Telesio consiste nell’avere rifiutato ogni apriorismo, nell’avere studiato la natura «secondo i suoi stessi principi», nell’avere liberato le scienze empiriche dalla soggezione alla metafisica. Giustamente il benemerito studioso e traduttore di Telesio, Luigi De Franco, sottolinea il contributo telesiano all’opera di liberazione della riflessione filosofica e scientifica dalla soggezione all’«autorità».

Telesio osserva il mondo quale si presenta all’esperienza senza ammettere preesistenti concetti conoscitivi; secondo il filosofo calabrese l’ordine naturale si rivela ai sensi i quali apprendono il carattere intrinseco della natura stessa. In tal modo la conoscenza avviene per mezzo dell’esperienza ed è liberata da ogni presupposto metafisico. Tra tutti gli elementi del cosmo egli ammette tre principi, il caldo, il freddo e la materia. Caldo e freddo implicano il moto, che è essenziale. Qualche residuo metafisico rimane nella sua dottrina ma il fuoco della sua polemica contro le fisiche tradizionali aristoteliche, contro i vacui concetti di materia e forma, con cui i fenomeni della natura erano stati per secoli interpretati, è il segno rinnovatore della filosofia. Si comprende subito che ci troviamo di fronte a uno spirito che crede nella verità che ha intuita. Non sarà il solo – anche se non gli mancheranno avversari e nemici, soprattutto nell’ambiente ecclesiastico – e un altro spirito assetato di verità, Tommaso Campanella, si rivolge a lui con queste parole:

Telesio, il telo della tua faretra
uccide de’ sofisti in mezzo al campo
degli ingegni il tiranno senza scampo;
libertà dolce alla verità impetra.

Anche per Campanella il tiranno degli ingegni umani sarà Aristotele.

Con Telesio l’Accademia Cosentina diventa, come scrive il Sapegno, «uno dei centri più cospicui e battaglieri di orientamento culturale, depositario geloso degli aspetti più severi e spregiudicati del pensiero e del gusto rinascimentale in seno alla civiltà controriformistica e barocca fino agli incunaboli dell’illuminismo». Va tuttavia rilevato che la filosofia telesiana non si risolve nel solo naturalismo, giacché la sua teoria etica richiama alla trascendenza, non da intendere come un compromesso per difendersi da persecuzioni ma come una posizione filosofica, che risponde a una sincera esisgenza di quel nobile spirito (Galati). Nell’Accademia Cosentina, sorta umanistica con Parrasio, si istituisce un nesso organico fra le esperienze letterarie e le ragioni filosofiche e scientifiche; le concezioni storiche e quelle naturalistiche della realtà saranno difese contro i dogmatismi e gli assolutismi.

Telesio muore a Cosenza nel 1588 e negli ultimi suoi anni non gli mancarono gravi colpi da parte dei peripatetici ma la sua presenza nella cultura non soltanto calabrese segna ormai la fine del Medioevo e l’inizio della scienza nuova.

Telesiano fu Francesco Muti di Aprigliano che nel 1588 pubblicò a Ferrara la sua difesa del Patrizi contro il marchigiano Teodoro Angelucci e subito dopo intervenne nelle discussioni sull’amore con il De pulchritudine theses Alphonso II Ferrariae Duci dicatae (Ferrara, 1589).

L’angustia di una società contadina e pastorale, lo squallore materiale e spirituale generato dagli infeudamenti, l’assorbimento di tutte le risorse da parte della capitale del Mezzogiorno continuano a indurre gli intellettuali calabresi a esulare dalla loro terra. La secolare fuga degli intellettuali dalla Calabria ha ragioni anche storico-economiche ben precise. Guglielmo Sirleto, uno degli ingegni di maggiore erudizione biblica e patristica, nato a Guardavalle di Stilo nel 1514, come Parrasio, come tanti altri umanisti, si reca studiare a Napoli, a Roma. In quest’ultima città studiò il greco in modo particolare ma apprese anche l’ebraico e il caldaico. Conobbe Marcello Cervini cardinale e lo aiutò nell’edizione dei classici e degli scrittori sacri, creandosi una erudizione rarissima negli studi biblici e nelle dottrine dei Padri della Chiesa. Per la vastità del sapere fu uno degli eruditi maggiormente consultati dagli studiosi del suo tempo e gli studiosi egli soleva radunare nella sua casa in tornate accademiche chiamate «notti vaticane». Quando il Cervini fu inviato al Concilio di Trento il Sirleto fu in corrispondenza con lui trattando i temi delle controversie conciliari. Diventando uno dei più insigni studiosi di cultura biblica cominciò a raccogliere i materiali per l’edizione della Volgata dal nuovo Testamento e del testo greco detto dei Settanta. Altissimi incarichi ricevette il Sirleto durante la sua vita; nel 1548 fu incaricato di preparare un indice dei codici greci della Biblioteca Apostolica Vaticana, nel 1553 fu nominato custode della stessa biblioteca, nel 1557 Paolo III lo nominò protonotario apostolico. Pio V nel 1565 lo creò cardinale per suggerimento di Carlo Borromeo e dopo che il Sirleto aveva collaborato al Catechismo tridentino, alla riforma del messale e del breviario. Vescovo prima di S. Marco e poi di Squillace, rinunziò al vescovato di Squillace in favore del nipote Marcello. A far parte della commissione per l’edizione della Volgata, della Bibbia greca, della Poliglotta di Aversa era stato chiamato da Pio V e attendendo agli studi biblici, patristici, correggendo il calendario giuliano acquistò grandissimi meriti nella cultura ecclesiastica. Fu anche preposto alla Pia opera dei catecumeni, quindi protettore dell’Archiginnasio romano e nel 1571 fu chiamato a far parte, e fu cardinale autorevole, della Congregazione dell’Indice.

Allo studio della lingua ebraica il Sirleto aveva aggiunto quello del caldaico e del siriaco e nella corrispondenza con il Cervini sono due filoni: quello degli studi del Sirleto e quello che riguardava le discussioni e i temi che si svolgevano al Concilio di Trento

I suoi campi di studio furono vasti e profondi, compì traduzioni in latino di opere della patristica greca, attese anche all’edizione del Corpus iuris canonici. Ma non va dimenticata la sua opera intesa a recuperare il maggior numero possibile di codici greci dai monasteri basiliani della Calabria. Il Sirleto intendeva mantenere alla Calabria la gloria del rito greco e nel 1577 compì passi presso il pontefice Gregorio XIII per fondare in Roma il Collegio greco al fine di formare sacerdoti dotti e fedeli alla S. Sede, per i paesi di rito greco. Il monachesimo basiliano era venuto decadendo e molti monaci avevano dimenticato di appartenere all’ordine che aveva dato esempi di cultura teologica profonda con Nilo, Elia Speleota, il beato Fantino Zaccaria, il padre Giovanni, ecc. La decadenza era favorita da signorotti locali i quali speravano di appropriarsi dei beni tolti ai basiliani. Il Sirleto fu incaricato di effettuare la riforma monastica sia per la sua nascita sia perché era diventato Prefetto per la trattazione degli affari dell’Oriente cattolico. Nel 1579 furono approvati i canoni della riforma e, per rendere questa esecutiva, fu convocato e tenuto il primo capitolo generale dell’Ordine basiliano nel monastero di S. Filareto in Seminara, non senza opposizione di qualche alto prelato a cui era stato dato in commenda un monastero basiliano e del priore della decaduta badia di S. Maria del Patire di Rossano il quale ultimo giunse a tale estremo di intolleranza che dovette essere affidato al braccio secolare. Il tentativo del 1579 di ridurre i monasteri basiliani sotto un unico Superiore generale, con diritto di nominare e dimettere i priori e i generali, fu l’ultima speranza di riforma, resa vana a avversione di molti religiosi ormai rilassati dall’inazione e dalla mancanza di vita spirituale. Nonostante i tentativi del Sirleto, del Carafa e del Savelli il monachesimo greco si inaridiva sempre più e cessava di appartenere alla storia, ha scritto il Raschellà, come organismo vitale ed evolutivo. Ma l’attività del Sirleto anche in questo campo era stata grandissima. Il Sirleto morì il 5 ottobre 1585.

Il Sirleto nel conclave seguito alla morte di Pio IV fu sostenuto da diversi cardinali e da Carlo Borromeo. Fu protettore dei basiliani e del Collegio dei Neofiti, collaborò alla riforma dei Regolari, del calendario Gregoriano. Scrisse molto ma pubblicò una sola opera su Innocenzo III.

A mano a mano che decadono le istituzioni di cultura italo-greche e diminuisce l’influenza del residuo mondo bizantino si sviluppano l’acquisto, l’incetta, la rapina, i trasferimenti dei manoscritti greci e le spoliazioni delle biblioteche dei chiostri. I codici greci non erano solamente di contenuto sacro (biblico, patristico, agiografico) ma anche profano. Intorno a metà del Cinquecento, considerato che in Calabria, Sicilia abbazie e monasteri «tienen copia grande de libros giegros» Giovanni Paez de Castro suggerisce a Filippo II di Spagna di trasferire i codici greci all’Escorial e di dare in cambio ai monasteri libri stampati in latino. Nel 1551 Giulio III affidava a Marcello Terracina l’incarico di visitare i monasteri italo-greci; nel resoconto si legge che ci sono monasteri occupati da cappuccini, da chierici secolari, chiese ridotte a spelonche di ladri e senza culto, un monastero è «desolatus et sine uno monacho», un altro è occupato da una donna, moglie del prete greco, un altro è in mano di un chierico secolare ignorante e di alcuni custodi di porci, numerosi sono inaccessibili «propter mala itinera» ecc. Si trattava più che di edifici di rovine, come avviene quando un mondo frequentato dagli uomini decade e perisce con tutti gli oggetti e la vita degli uomini si trasferisce altrove: il disordine della natura rende più assurde le rovine. Di molti luoghi in cui la vita sociale e religiosa fiorì rimane traccia solo nei toponimi.

Nel 1572 l’abate bovese Colucci Garino scrisse in bovese (greco volgare) che le autorità latine e il sindaco di Bova congiurarono «per fare il vescovato latino» e lo fecero sicché «quelli che diedero consiglio perché diventasse latino, che abbiano la maledizione dei trecento 18 santi padri […] scrissi di mia mano, pregate e non maledite». Il testo è in alfabeto greco, tale scrittura diventa sempre più rara mentre il greco rimarrà nel territorio come dialetto parlato.

Il rito latino trionfava con il Concilio di Trento. Dal 1560 al 1592 fu arcivescovo di Reggio Gaspare Del Fosso il quale si occupò della formazione del clero, costruì un seminario, curò l’edificazione del Collegio dei Gesuiti, istituì il Monte di Pietà, riunì in un solo monastero tutti quelli femminili assegnando la regola benedettina, sostituì il rito latino-gallicano di origine franco-normanna con quello latinoromano nella liturgia. Il suo successore, Annibale D’Afflitto, filo-spagnolo (era stato cappellano di corte a Madrid), non aveva trentaquattro anni quando prese possesso della diocesi reggina (1594) che aveva una popolazione di cinquantamila abitanti, era povera e intrisa di pratiche superstiziose e magiche. Il D’Afflitto compì numerose visite pastorali, controllò severamente la vita religiosa, attuò la Controriforma, fece ricostruire ospedale, seminario, luoghi sacri distrutti dalla spaventosa incursione dei Turchi del settembre del 1594 guidata dal rinnegato Scipione Cicala (Sinan Bassà) che mise Reggio a ferro e a fuoco lasciando dietro di sé «carboni e ceneri» (così i sindaci reggini in risposta alle espressioni di cordoglio delle autorità messinesi). Nei confronti del rito greco il D’Afflitto prese provvedimenti radicali, applicò le sanzioni disciplinari più severe per migliorare la preparazione culturale e religiosa; ordinò ai chierici impreparati di frequentare le scuole soprattutto di latino, ordinò alle chiese greche di uniformarsi alle latine nell’uso dei fonti battesimali, impose l’acquisto del messale romano e del rituale latino nonché di suppellettili utili a celebrare la messa secondo il rito latino; la sua fu una lotta mirante a sopprimere il rito greco non con un decreto esplicito ma de facto. Nelle zone di rito greco, scrisse Gabriele De Rosa, «agì con mano piuttosto pesante» e cita Antonio Denisi nell’osservare che l’arcivescovo fece di tutto «per ottenere una tacita introduzione del rito latino, con prescrizioni che sanno d’incomprensione e che si rivelano contraddittorie». Scarsa la sua stima per i prelati e chierici di rito greco definiti «in maggioranza molto ignoranti, impreparati e manchevoli nelle cose necessarie a sapersi» (Denisi). Il rito greco non sopravvisse nella diocesi (Cattolica di Reggio, S. Agata, Motta S. Giovanni, Montebello, Pentedattilo, S. Lorenzo) alla morte (1638) dell’arcivescovo-«console romano» (De Rosa).

Della decadenza della Calabria nel Cinquecento si trova un riflesso nel personaggio del calabrese sulle scene che viene esposto come rozzo e selvaggio. Croce ricorda che i calabresi, per essersi i progenitori Bruzi alleati con Annibale contro i Romani, furono condannati a prestar servizio di schiavi e di carnefici nelle province e che, in tale condizione, poterono essere i carnefici di Cristo ed essere considerati tali. Teresa Cirillo cita in Persiles e Sigismonda di Cervantes un Pirro calabrese, accoltellatore, intollerante, facinoroso che finisce sulla forca. Nella commedia La vedova di G.B. Cini (rappresentata a Firenze nel 1569) il contrasto tra un siciliano e un napoletano è comunicato alla platea «per mezzo di un gustoso e colorito scontro fra dialetti ove prende forma una motivazione etica, psicologica e sociale» (T. Cirillo) e dei calabresi si dice:

E nun sapiti chi Nostru Signuri
Deu, quandu criau lu mundu, dissi
a chisti disgraziati: «Surgite
calabrorum de stercore asinorum»?
E chi si dici di lu calavrisi:
«Trista la casa chi ci sta lu misi,
e ci si sta l’annu
ci duna lu malannu»? […]
Va, mancia fogghia tu, napulitanu,
ma, pir dirti megghiu, calavrisi
Iuda, imprenasumeri […]
Vattindi a Riggiu avanti
tu, calavrisi: e non senti li turchi
comu si sunnu accunzati? chi vonno
veniri un’atra vota a saturari
megghiu li vostre fimmene.

Nella commedia dell’arte taluni connotati del calabrese passeranno nel personaggio di Giangurgolo.

Nel campo della teoria drammatica Campanella tiene campo muovendo dalla filosofia telesiana; il fine della tragedia è «muovere», far capire, ritrovare i princìpi naturali, non meravigliare. Secondo la sua poetica Campanella compose una tragedia Maria, regina di Scozia che non ci è giunta. Coriolano Martirano (che per il Napoli-Signorelli fu considerato il Seneca del Regno di Napoli per lo studio che ebbe di trasformare in latino molte tragedie greche) compì libere imitazioni da Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane proponendosi di evitare gli ornamenti retorici e F abuso di sentenze di Euripide nell’Ippolito, l’affettazione di Seneca in altre. Campanella teorizzò un teatro più vicino alla realtà storica dello spettatore perché il rapporto con effetti emotivi facilita il perseguimento della virtù. Storia e rimeditazione della storia (come ha osservato Anna Cerbo) provocano una reazione emotivo-sensitiva (la compassione) e una morale (la tensione a perseguire il gusto):

Queste dunque miserie – scrive Campanella – più muovono, quanto più sono presenti; tanto più presenti sono, quanto i pazienti sono a noi più vicini di luogo e tempo e di professione e credenza […] Dunque è bene lasciare addietro gli Ercoli, gli Agamennoni, gli Edipi, le Sofonisbe, e trattare i soggetti de’ nostri tempi […] Le tragedie di S. Giovanni Battista e di S. Giustina muovono gli affetti e sono lodevoli più per esser morti per la verità della nostra religione, che per altro, onde si vede che la giustizia della causa è necessaria nella rappresentazione […] non deve essere favoloso, se non pochissimo perché il vero move più che il falso.

Alle finzioni letterarie del Cinquecento si richiamano, invece, le Sorelle (1596) del cosentino Maurizio Barracca (1562-1625), il Capriccio (1598) di Francisco Antonio Rossi, anch’egli cosentino e commediografo, in cui è la caricatura del capitano, del pedante e gli altri personaggi sono gli innamorati, la cortigiana, i vecchi, il servo ecc. del repertorio plautino. Di Ottavio Glorizio (nato a Tropea nel 1536), insegnante a Messina di diritto canonico e feudale, si ricordano due commedie, Le spezzate durezze (1606) scritta da adolescente e stampata dal fratello Carlo (personaggi tradizionali a lieto fine) e Imprese d’amore, rappresentata a Tropea nel 1600, pubblicata a Venezia nel 1607.

  1. La vita culturale degli Albanesi, nei primi due secoli di permanenza in Italia (sec. XVI-XVIII), si sviluppò in ambiente ecclesiastico e di esso mostra chiari i segni a datare dal 1592, anno comunemente assunto come inizio della storia letteraria albanese in Italia. La componente religiosa, presente nella prima fase della letteratura, è testimonianza, tra l’altro, dell’attenzione che l’autorità ecclesiastica riservava alla minoranza albanese, oltre che segno di mancanza di accesso degli Albanesi d’Italia, infatti furono riservate poche strutture culturali: fino al XVIII secolo essi poterono usufruire per la formazione culturale, destinata del resto quasi esclusivamente agli aspiranti sacerdoti, solo del Pontificio Collegio Greco di Roma (dal 1577) e in forma minore, a causa delle specifiche finalità istituzionali, del Collegio Urbano di Propaganda Fide di Roma (dal 1622), del Monastero di Mezzoiuso (dal 1617) e della Badia Greca di Grottaferrata di tradizione bizantina. I primi due secoli sono particolarmente poveri di composizioni letterarie, mentre il XVIII secolo si presenta ricco di iniziative culturali e dà le prime robuste prove di creatività originali. Questo fermento è certamente la diretta conseguenza dell’istituzione del Collegio “Corsini” di S. Benedetto Ullano (Cosenza) nel 1732 e del seminario Greco-Albanese di Palermo due anni più tardi, voluti dalla Sede Apostolica per la formazione del clero albanese di rito bizantino. L’istituzione dei suddetti centri culturali è un primo concreto riconoscimento della minoranza albanese come entità etnico-religiosa da parte dell’autorità ecclesiastica. In questi centri si formarono Luca Matragna (1567-1619), Nicola Figlia (1682-1769), Nicolò Brancato (1675-1741), Giovanni Tommaso Barbaci (1742-1791), Giulio Varibobba (1725-1788), Nicolò Chetta (1742-1803), Pietro Pompilio Rodotà (1707-1770), tutti scrittori ecclesiastici» (Italo Costante Fortino).
  2. A Paola, ad esempio, nel 1498 incontriamo Antonio Gontier, il noto libraio che viene anche in Calabria ad allargare il suo commercio. A Reggio nel 1475 era stato stampato il primo libro con caratteri ebraici, il Commentarius in Penthateucum di Jarchi bar Isaac, nell’officina di Abraham ben Garton ben Isaac. Tre anni dopo a Cosenza inizia l’attività tipografica di Ottavio Salomone di Manfredonia che stampa il De immortalitate animi di Iacopo Canfora nonché il già ricordato Lamento scritto da Maurello.
  3. Il codice fu illustrato anche dal calabrese Cola Rabicano di Amantea che fu attivo alla corte di Napoli. Altri miniaturisti calabresi del Quattrocento furono Giovanni di Calabria, Matteo di Terranova, Filippo Caccavo.
  4. Tideo Acciarino ebbe suoi discepoli i Martirano, Telesio, Parrasio, Salemi, Casopero e il Franchini.
  5. Esperienza culturale europea ebbe Agazio Giudacerio, umanista catanzarese del primo Cinquecento, che insegnò ebraico all’Accademia Romana (1514) e al Collegio Reale di Parigi (1531).