XII. Cultura popolare e poesia in Enotrio. Altri dialettali

XII. Cultura popolare e poesia in Enotrio. Altri dialettali

La scelta politica degli anni Cinquanta fu decisiva per l’Italia meridionale e, soprattutto, per la Calabria che venne condannata ancora una volta a essere mercato di consumo. Le attività industriali e la necessità di lavoro costrinsero i calabresi a emigrare nell’Italia settentrionale o all’estero. Il loro lavoro e quello degli altri emigrati meridionali, sottopagato, consentì il boom economico e spopolò i paesi. Fu la più grande migrazione avvenuta nella storia della nostra regione. Al trasferimento dei lavoratori verso il Nord (dove essi avrebbero prodotto merci) corrispondeva la razionalizzazione dei mercati del Sud (autostrade, opere pubbliche utili alla consumazione delle merci e fonte di guadagno rubato per i clienti politici, assistenzialismo statale per mantenere la sopravvivenza non produttiva). Il clientelismo politico rafforza le cosche mafiose, si stringono quei legami e quelle protezioni che corrompono la vita civile e sociale con responsabilità ben precise dei partiti di governo.

Questa nuova emigrazione succeduta alle grandi lotte per la terra ha ricreato l’immagine di una Calabria abbandonata e desolata, di una regione-ospedale, di un territorio devastato da frane e alluvioni, di disgregazione della cultura comunitaria, di delitti e di faide derivanti dalle attività mafiose. Al di là dei rimpianti e delle nostalgie per la vecchia Calabria c’era il preannuncio nella letteratura e nella pubblicistica, dello sfascio economico e sociale che sarebbe sopraggiunto negli anni Settanta, della paralisi della regione, della degradazione politica e amministrativa. Enotrio pittore rappresenta i paesi desolati, i muri graffiati da scritti di protesta, oggetti muti, teorie di nere figure solitarie, case su picchi, sbarre alle finestre. Enotrio poeta dialettale in Fatti, figuri e cosi calavrisi (1976) presenta un repertorio significativo per l’intensità realistica e per il substrato di cultura popolare che anima la poesia. I calchi letterari (grande tentazione della poesia dialettale post-pascoliana), i sentimentalismi, la riproduzione mimetico-realistica sono remotissimi; le variazioni intorno all’emigrazione sono il tema che ha come centro una Calabria alla quale si ritorna solo quando non si produce più lavoro, quando le braccia sono esauste e si sta per morire (Tutti partimu):

Tutti partimu e tutti la dassamu
chista terra di petri e chistu mari
e mu ndi veni vogghja mu tornamu,
avimu di mbecchjari.

Ovvero (A Merica):

Quandu nescivi patrima era a Merica.
Fici u sordatu e patrima era a Merica.
Mi maritai e patrima era a Merica.
Vinnaru i figghj e patrima era a Merica.
Màma moriu e patrima era a Merica.
Aguannu tornau patrima d’a Merica
pe nommu mori a Merica.

Il canto coglie, però, anche un’altra condizione oggettiva della Calabria, l’abbandono della terra, variamente commentato dalla pubblicistica, ma la cui causa è nella migrazione coatta, nell’esilio imposto dai politici (E mo?):

Na vota a Mésim
cu zappi e zappuji
cogghjìamu pipi,
suriaca e cipuji.
E moni mbeci
chi no nei su vrazzi
nescinu ardichi
e cogghjìmu sti cazzi.

Un’altra originale rappresentazione della nostalgia è nei versi in cui un emigrato calabrese perde volontariamente la propria identità rinnegando il dialetto; il poeta è emigrato in un paese lontano, «mmenzu a genti chi campa mu guadagna, | duvi no trovu mai nu calabrisi, | duvi la vita mea passa sulagna»; per via gli sembra di cogliere in un discorso la parlata di Soriano:

Cu lu cori chi junta, all’ammucciuni
nei spiu: – Vui no siti paisanu?
Mi guarda: – Tischi-toschi? – E lu cazzuni
si menti pemmu parra talianu.

Qui è la rabbia per il dialetto mistificato, per l’accento continentale che si assume di proposito nel tentativo di assimilarsi agli abitanti del luogo in cui si lavora. La saturazione, invece, dell’ambiente di lavoro della miniera in terra straniera è in questi versi (Marcinelle):

A menzu a chistu fetu di carvuni,
nta sta minerà, cu stu cala e nchjana,
vorria mu sentu, non ndi pozzu cchjuni,
adduri di na mmerda paisana.

L’idea della Calabria emigrante più vicina a quella di Enotrio è in Franco Costabile la cui esperienza avvenne in una Italia umile e povera, in una Calabria rurale e sottosviluppata che non era di coloro che lavoravano, dell’immenso esercito di contadini che percorrevano a valle «i bianchi itinerari del paese», la «via degli ulivi». Questo mondo rurale era ancora feudale, del mondo contadino non era riconosciuto alcun valore, esso rappresentava una offesa vivente e Costabile, privo della fierezza e dell’orgoglio cantati dai celebratori della stirpe, fa coincidere Calabria reale e poesia: Calabria dolente come la vita che in essa si manifesta, tutto è chiaramente perduto. Eticizzazione, estetizzazione della «calabresità» come famiglia, focolare, popolo, valore militare non esistono; esiste una terra antica con uomini offesi e senza scampo ai quali, ironicamente, è da consigliare l’esodo collettivo:

Via
dai feudi
dagli stivali dai cani
dai larghi mantelli […]
Cancellateci
dall’esattoria.
Dai municipi
dai registri
dai calamai
della nascita […]
Siamo
i marciapiedi
più affollati.
Siamo
i treni più lunghi.
Siamo le braccia
le unghie d’Europa.
Il sudore Diesel […]
Milioni di macchine
escono targate Magna Grecia […]

Costabile, quando i nuovi politici vogliono fare assumere alla Calabria le usanze del consumismo onnivoro e omologatore, si rifugia nel sentimento offeso e ai nuovi oggetti dell’industria e degli imbonitori politici contrappone le povere cose della sua terra sempre ingannata. L’essenzialità di Ungaretti che unifica cose e sentimenti, la registrazione figurativa morandiana dalla quale emergono dimensioni di nudità e di assoluto fanno campeggiare nella brevità quasi epigrammatica luoghi e cose di un mondo senza speranza. Costabile è il poeta più vicino al mondo di Enotrio per assolutezza di linguaggio e l’amicizia fra i due artisti ha un preciso significato. Enotrio nell’infanzia aveva conosciuto a Buenos Aires la Calabria degli emigrati.

Dietro gli emigrati è la compatta cultura popolare contadina del secondo Ottocento e dei primi del Novecento: isolamento, solitudine, lavoro dei campi, miseria e fame, rivolta contro governi improvvidi, contro i rappresentanti locali corrotti e imbroglioni, solidarietà degli umili tra di loro, carcere per insolvenza, pignoramenti, partenze costrette, fisiologia di una vita immobile e coatta, identificazione con il mondo della natura, con gli oggetti e gli ambienti del lavoro e, infine, sentimento di un destino irreparabile che si tocca con mano. Il sesso come vitalità naturalistica, la rabbia come opposizione all’impossibilità di un disegno umano sono alcuni dei temi-chiave dell’esistenza costretta. La fisiologia antropologica si fìssa in motivi ricorrenti nella pratica e nella memorialistica, la fuga è una necessità, la permanenza è una macerazione.

Il raccontare incisivo, esplodente, epigrammatico di Enotrio, le conclusioni fatalistiche derivano anche da due elementi antropologici: la nascita e l’infanzia in Argentina; l’adolescenza e la prima giovinezza nell’Italia povera degli anni Trenta e Quaranta. L’Argentina degli anni dell’infanzia è la terra degli esuli italiani ed europei in cui si agglomera il sentimento del perduto, del rimpianto, della nostalgia e della fatalità. Questi motivi dilagano anche attraverso la musica, fanno parte del corredo dell’uomo che si sente esule, si innestano sul fatalismo delle sconfitte. Il tango argentino coagula tutti questi sentimenti con la suggestione della musica: «Tutta la mia vita è l’ieri | che mi trattiene nel passato»; «Dove sono i balli di una volta, | dove sotto le pergole | cento accordi di chitarra | ci hanno fatto vivere e sognare?»; «Dov’è il mio quartiere, culla mia cara?»; «Dove sarà il mio sobborgo? | Chi mi ha rubato l’infanzia? | In quale cantone, luna mia, | lasci cadere, come allora, la tua chiara allegria?»; «Sentiero coperto di cardi, | la mano del tempo ha cancellato il tuo segno. | Io vorrei cadere accanto a te | e che il tempo ci uccida entrambi» (che è il famoso Caminito); «Venticinque primavere che non torneranno, | venticinque primavere, tornare ad averle!» ecc. Ci interessano di meno i collegamenti con l’alta tradizione letteraria italiana perché i riferimenti sono più generici; ci importano maggiormente le correnti impure, la letteratura sudamericana densa di psicologia e di costume per vedere questi flussi psicologici in Enotrio, le loro sedimentazioni, le variazioni da lui apportate nei nuclei sentimentali del mondo degli emigrati italiani. La ricerca del passato e dell’infanzia come vera identità ma anche come fuoco vitale dell’esistenza per la totalità psicologica che consente di esprimere, il sentimento della vita come ardore, lo scavalcamento dei modelli culturali più diffusi, il reperimento dei modi espressivi nei fondali linguistici e psicologici del mondo dialettale, le espressioni metaforiche della psicologia dell’uomo offeso, la sceneggiatura asciutta e risentita ci sembrano essere i motivi principali che caratterizzano la formazione interiore dell’artista.

I primi anni dell’adolescenza di Enotrio, nostro compagno di scuola, sono quelli del ginnasio a Messina in cui la vita della popolazione (sottoproletaria, ceti medi inferiori) non aveva elementi di protagonismo ma di passività e umiliazione, di velleitarismi, di esibizionismi ginnico-militari, di volontarismo fascista dettato dalla miseria. Enotrio non poté conoscere che il vitalismo biologico della città, la giocosità mordace e confusa, l’incanto del porto e la traversata del quotidiano viaggiare per mare perché solo più tardi fiorì l’antifascismo degli intellettuali (come fiorì il fascismo dei giovani partecipanti ai Littoriali). Della Calabria rurale degli anni Trenta e Quaranta Enotrio conserva memoria sia personalmente sia attraverso le conversazioni con l’amico Stefano Iorfida dalle quali deriva il libretto I barbaluti (1986) in cui sono locuzioni, espressioni, battute e lazzi calabresi ornati da 52 xilografie. Le emozioni degli incontri annuali con l’amico «testimone veritiero» di «storie picaresche e scellerate di un paese e dei suoi abitanti intorno agli anni Venti e Trenta», scrive Enotrio, «sono analoghe a quelle che può trovare l’ascolto di un vecchio fonografo meccanico, o la visione di sbiaditi albums di famiglia». L’immagine che ne deriva è quella di un’Italia agricola e artigiana in cui realtà e utopia sono paradigmi che vengono espresse in metafore simboleggianti la meraviglia, la rassegnazione, i vizi, i comportamenti, la fisiognomica, le bizzarrie, le inutilità, gli assurdi ecc. dell’esistenza in quel contesto e in quelle tradizioni. C’è anche il sentimento di aggregazione popolare intorno alla solidarietà, alla fede umana e religiosa, all’eros, alle superstizioni, alla morte, l’ironia sulla propria sorte e sugli scarsi orizzonti nonché sui vizi dei potenti collegati all’idea del dominio e sui vizi dei poveri, dei disadattati come riflesso della loro incapacità strutturale unita a una sorta di rassegnazione naturalistica perché il dato reale più notorio nelle locuzioni, nelle espressioni è l’immediata evidenza naturalistica della vita. Espressionismo, caricature, deformazioni nascono dal feudalesimo plurisecolare che ha tenuto soggetti gli abitanti, dalla tradizione magnogreca del pensiero intorno all’essere e al monismo, dall’ambivalenza della realtà soggetta ai campanelliani «tirannidi, sofismi e ipocrisie».

L’irrealizzabilità è espressa dal detto «Si l’acqua i man diventa duce»; la bara è un «cappottu i lignu», l’avaro è «nu zinircu chi cunta i lenticcji» ovvero «Avi u cori i ’nu gnuri», l’uomo abilissimo è quello che «spacca i pili ca faccetta»; il detto «Accìnta gramigna!» indica l’inutilità della fatica riversata nell’estirpare l’erba spontanea e cattiva; chi è sempre in movimento «Pari nu ncenséri»; «A lanterna a mani i l’orbu» indica l’inutilità di uno strumento in mano di chi non lo sa usare; il valore dell’esperienza (e dietro c’è Campanella) è profondamente connotato in «Vegnu d’u mortu e mi dici cu morìu!»; l’approssimazione è scandita da «Pezzi janchi e filu niru»; il secco fornisce la metafora «Asciuttu comu ariganu», la ragazza magrissima «Pari na gatta chi mangia lacerti», dello spaccone si dice «Carrìa landeddi», chi prova una forte sorpresa emotiva «Restau comu a chiju chi nc’i u vitti a màmmasa»; una ragazza affascinante «Ncuddurìa cu l’occhji», un testo incomprensibile è «Na carta i notaru», l’uomo grosso e stupido è «Babbu e chjiattuni», la donna brutta è «na carcaràzza», chi cammina lentamente «Pari na hjalòna», la ragazza senza garbo è «Ngalipàta ch’i pedi», la persona insulsa «Avi u sapuri d’u vovala-cu», l’amico che scompare quando si ha bisogno è «Amicu da fungia», il malaticcio «Avi a saluti d’u granu i pasca»; il naturalismo filosofico calabrese è documentato da «Avi sulu simula e voli u faci i pruppetti i carni»; l’uomo senza autorità in famiglia «Faci u mazzeri sulu a processioni», ancora il motivo dell’esperienza è in «Videndu, facendu»; l’antitesi suggerita dall’eccessivo amaro è «duci comu l’albe»; la donna maldestra è «Hjàcca cortari», la vergine «Avi a pagnotta sana», l’uomo forte solo coi deboli è «Ammazza muschi», chi dipende dagli altri è «Suttapanza», chi si muove con precauzione «Pari nchjimàtu!» ecc.

Le xilografie dei Babbaluti esprimono gli oggetti, le figure, gli animali della vita del tempo visti nella loro assolutezza; le figure di Enotrio, gli oggetti (fiori, chiavi, ferri da stiro, cuori trafitti, accetta, biscia, spade delle carte da gioco, teschi, salsicce, uccelli, cipolle, mitra di vescovo, tenaglia, angelo, lumaca, ferri di cavallo, serratura, la morte aggrappata a un albero ecc.) esprimono emblematicamente la vita del tempo, sono caratterizzati dal segno incisivo netto che riduce la visione a semplicità, verità, povertà, memorandum.

È lo stesso procedimento real-memoriale incisivo che troviamo nelle poesie dialettali.

Il poeta non ha disegni poetici, registra e interpreta, sintetizza con la massima incisività ciò che gli altri raccontavano o comunicavano per lettera. Nella parola dialettale è la filosofia contadina impregnata di naturalismo e di fato, impastata di miti e di morte. Nulla di più lontano dalle sfilacciate commemorazioni sentimentali, dagli attuali annacquati (con calchi di lingua) tentativi di cantabilità del dolore o di un folklore separato dalla vita. Questi sono banali surrogati dell’incapacità di interpretare la realtà. Enotrio raccoglie gli stabili elementi naturalistici popolari del sentenziare contadino, li fissa nel loro significato antropologico e da questo procedere deriva la forza esplodente delle immagini. Nei versi il poeta riproduce anche l’ironia sentimentale interna al paese e abitanti (Picchì?):

Così, figuri e fatti calabrisi:
mancu sacciu pecchi!
Non passa nu momentu
chi non mi veni a menti
chistu cazzu i paisi.

Il tempo nel paese trascorre senza partecipazione degli abitanti alla vita, le settimane trascorrono senza rilievo, la storia va oltre e gli avventimenti gravissimi («Badogli, mussolini, re, regnanti, | mangiatari, mafiusi, federali […]), non vissuti, punteggiamento mutamenti non avvertiti e non modificanti. È dato fondamentale della storia del differenza delle masse ai cambiamenti di regimi i quali hanno sempre lasciato le cose come stavano prima per le classi subalterne. La storia di finte rivoluzioni, di gattopardismi ha sempre isolato gli interessi dei lavoratori.

La saggezza popolare come sintesi di remote esperienze ha espressioni sintetiche che Enotrio riproduce con scatti che colgono il fatalismo, le contraddizioni, la mancanza di illusioni, i sentimenti profondi che egli investe della propria tecnica artistica individuale. La grafica interpreta saccamente le situazioni senza amplificare: i fichidindia rigogliosi sono il solo cibo dei poveri che ne muoiono («mangiau tanti ficu ‘indiani, | che moriu mbujato»), l’uomo incurvato visto di spalle vive di ricordi che non lo fanno andare avanti, la gioventù bella e amara (morti in Spagna, soprusi fascisti e polizieschi, amori, odori della miseria e dei lavori) dura fino al giorno dell’emigrazione (Gioventù) dalla quale non si ritorna che in vecchiaia: ma per molti non c’è ritorno. Chi rimane assume simbolicamente, in vita, l’immagine della morte che snocciola i giorni come grandi di rosario e i versi sono cadenzati (Li jorna) dal sentimento popolare della fatalità:

La jorna sugnu cocci di curuna
nta li jidita friddi di la morti;
lu suli fuhji arretu di la luna,
la luna fuhji arretu di la sorti.

La consumazione, la perdita, l’irrevocabilità, il non ritorno della musica del tango argentino si fondono con il sentimento della Calabria che alimenta di nostalgia il mondo degli emigrati. Si veda in A pinsioni la madre che ha i figli lontani ma è mantenuta solo dalla pensione del figlio morto:

Di figghji ndi criscivi na decina;
nd’haju a Brocclinu e nd’haju all’Argentina.
Ma chju chi mi mantieni è u cchjù picciottu:
mi moriu nta la guerra du diciottu.

È un racconto popolare espresso in quattro versi, il resto – lo sconforto, la solitudine – non è dichiarato e fa parte della suggestione delle parole. In queste circola il sentimento del destino in rapporto con i dati materiali della vita (A vita):

Jendu e venendu,
videndu e facendu,
riscendu e mbecchjiandu,
non ci sì chhjù.

Il divenire consuma, si desidera tornare nell’alveo materno ma la morte riconduce al destino della miseria hominis (A morti):

Mpurrendu a lu scruru
dintra na fossa,
ti suca la terra
e restanu l’ossa.

Forse il non-essere sarebbe stato preferibile all’essere: «Accussì nenti vidia e sentia | e nenti m’attoccava di ’mbidiari».

In contrapposto al destino di infelicità Enotrio, come nella pittura, esalta con potente naturalismo legato alla tradizione popolare il principio della vita (Cunnu):

Cunnu, principiu di lu mundu sanu,
piaciri, prica e preju di la genti,
sì na junta di pilu nta na manu
e di tutti li cosi a cchiù putenti […]
Sì na singa, nu morzu, nu vuccuni,
la porta cchjù disiata di li porti […]
ndi tia si cria la vita e no la morti.

Natura-sesso e vita-sentimento sono complementari ed Enotrio canta in modi popolari struggenti il sentimento che si accompagna alla presenza e all’assenza della persona amata (Sirinata):

Hjuri servaggiu, spina di sipala,
lu cori meu senza di tia s’ammala.
Quandu, comu la luna, ti ndi vai,
la notti è longa e non abbrisci mai.

Il grafico che è di fronte allo stornello è uno spicchio di luna campeggiante nella notte buia sui tetti, emblema del cuore del mondo meridionale.

Il destino cala nella persona, si materializza nel lavoro, nel soma, segno dell’indistruttibile dato oggettivo nel rapporto con la vita interiore (Lu cilonaru):

Mala furtuna
quandu nescivi,
distinu amaru
di cilonaru.

Ovvero in Bagnarota: «si ncuntru la finanza no mi scantu | e m’ammucciu lu sali nt’e ngunagghji» o nelle donne di fatica nel cui fisico e nella cui condizione si personifica il segno del destino:

Haju nu ferru a postu di la schina,
subba la testa carricu quintali,
d’omani mi nd’acconzu na dozzina,
quandu pisciu spirtusu lu finali.

Assessuri comunali,
consiglieri provinciali,
deputau, senaturi,
prisidenti o quirinali.
Si nesciu n’atra vota
m’arrampicu i sti scali […]
Giuvinizza, giuvinizza,
nui criscimmu nta mundizza.
Jancu hjuri, jancu hjuri,
vu crisciti a menz’adduri.
Cu sta cazza i litania
vaci sempi n’culu a mia.

La proprietà assurta a valore è oggetto di smisurata ironia universale (Proprietà):

U meu, u toi, u soi,
u nostru, u vostru, u loru.
Stu cazzu i patraternu
fici nu bellu capulavoru!

Caducità della vita, vecchiaia diventano motivi lirici nel canto dell’intelligenza popolare che vede anche l’ingiustizia nel trionfo della stupidità e si riscatta nella consapevolezza di avere in sé la ragione (Cazzuni americanu):

Si sì nu fissa, sì m’povaru cristianu.
Ma si sì fissa e noi mu futti a mia,
sì propriu nu cazzuni americanu.

L’esilio porta negli emigrati la nostalgia del canto argentino e lo struggimento del ricordo (J.L. Borges:

Ricordo i gelsomini e la cisterna, cose della nostalgia […]
Ricordo il tempo generoso, la gente che arrivava senza annunciarsi
[…] Ricordo i carri di terra nella polvere dell’Once
[…] So che i soli paradisi non vietati all’uomo sono i paradisi perduti […]

ma anche la consapevolezza di una qualità propria superiore alla balordaggine nordamericana. La serratura è l’immagine della vita che si conclude per tutti e che riporta all’universale condizione umana:

S’apri na porta
uguali pe tutti,
pe cui si ncazza
e pe cui si ndi futti.

La nota fondamentale di Enotrio poeta è quella del destino dell’uomo che colora le ingiustizie, le contraddizioni della vita dall’interno del mondo popolare, quello di un lembo di terra d’Italia che la sorte ha consentito al poeta e all’uomo di sperimentare. Ma tale nota, originalissima, nasce dalla vita offesa; l’altra vita, dei sentimenti fiorenti, appare con ineffabile tenerezza in Enotrio, soffonde con il colore azzurro, come nella pittura, ogni visione di bellezza interiore (L’uri cchjù duci):

L’uri chhjù duci di la vita mia
li tegnu comu hjuri nt’a na grasta,
li pasciu com’aceji di folla,
li scaddu cu lu hjatu si m’abbasta […]
e l’accarizzu u mi veni l’arraggia
pecchì arraggiatu nei vogghju cchjù beni.

Matteo Paviglianiti (1873-1956), barbiere, socialista umanitario, fu poeta che derivò i suoi accenti lirici e le sue moralità dal mondo popolare. Il poeta era un personaggio noto per la sua bontà e per la semplicità. Nel 1939 pubblicò ’U specchiu da vita: in una delle poesie paragona il suo cuore a una lanterna che fa luce nell’oscurità di un antro mentre il vento la sbatte contro i muri. Altri motivi delle poesie sono la caducità delle cose umane, il dolore per le illusioni svanite.

Carmelo Lanucara (1910-1950) di Reggio, che poco ha scritto perché breve tempo ha vissuto, era ricco nei suoi versi di sentimenti umani e sociali; ha lasciato anche la traduzione in dialetto di un canto di Dante. Napoleone Vitale (1883-1950) di Bova, poeta in lingua, in dialetto ha scritto Asprumunti e un componimento drammatico (L’aceddu di la verità) rappresentato da Giovanni Grasso all’«Odescalchi» di Roma.

In dialetto hanno scritto anche Francesco Salerno (1900-1976) di Palmi, Ferdinando Alvaro di Maropati, Giuseppe Arabia, Vincenzo Chiefari, Luigi Tucci, Ciccio Errigo i cui versi sono legati alle feste patronali reggine. L’intenzione del noto cantastorie Otello Profazio nel comporre le Profaziate (1990) – già pubblicate sulla «Gazzetta del Sud» (1987-89) – è quella di testimoniare la necessità di modificare la mentalità arretrata, vetusta, le opinioni comunemente accettate, il gusto corrente. Nel suo corpus linguistico sono privilegiati le anfibologie, i doppi sensi che servono al temperamento umoristico, satirico, caratterizzante di Profazio (parodiatore del pippobaudismo, della mancanza di ironia di Craxi, del calandrinismo).

Salvatore Filocamo (1902-1984) di Siderno Superiore, di origine contadina, autodidatta, impiegato, compose i primi componimenti dialettali di carattere giocoso e satirico come si usava nei generi letterari paesani. Nel 1922 compose la prima «farsa», I debiti ’i Carnaiovari rappresentata a Siderno Superiore da una compagnia di attori improvvisati nel 1923. Altre farse sono ’U zitaggiu, Maritu e mugghieri, U sonnu ’i Carnaiovari, in prosa è ’U locanderi del 1931 e ‘U librettu spatatu del 1975-76. La prima farsa è stata pubblicata da Ettore Alvaro e Antonio Piromalli in Il Carnevale in Calabria. Ricchi e povari è una raccolta di poesie dialettali pubblicata nel 1975. Filocamo appartiene all’ultima generazione che ha tramandato la cultura popolare. Famosa è la quartina di Ricchi e povari:

E vui, Signuri, chi tuttu viditi
pecchi ’sti cosi storti ’i sumportati?
Ddui sunn’i cosi: o vui non ci siti
o puru vui d’i ricchi vi spagnati!».

La letteratura dialettale del secondo Ottocento ha rappresentato soprattutto la protesta, in Calabria, del mondo subalterno; il dialetto in quanto espressione della cultura popolare, antagonista, è stato contrastato dalla scuola, dalle istituzioni della società nazionale del fascismo, della borghesia nel Novecento. La realtà corrosiva e critica nei confronti di quella prospettata dalle classi dominanti venne fortemente combattuta. L’esperienza del verismo, del realismo della vita connotava il linguaggio di quella società contadina che si trovò violentata dagli accelerati rapporti di produzione industriale indotti dal nuovo Regno. Il mondo contadino rimane compatto nella sua identità fino alla fine della seconda guerra mondiale mentre nella nazione si avverte nell’attività dialettale del Novecento l’evoluzione linguistica dall’attegiamento satirico-umoristico alla visione interiorizzata della natura. Tipico il fenomeno della poesia di Aldo Spallicci, in Romagna, il quale introduce nella poesia dialettale i motivi interiori del Pascoli. In Calabria il pascolismo entra nella poesia dialettale ma più con i contenuti etico-affettivi che con l’ars dictandi della nuova poesia italiana ed europea.

Oggi i poeti dialettali non vivono in una comunità compattamente dialettofona, il dialetto è deformato da inevitabili numerosissimi prestiti, il poeta deve accogliere modelli, psicologie, strutture delle lingue italiane: da quella burocratica a quella giornalistica, politica, industriale, dall’impoverito e flaccido italiano comune parlato, disintegrato, grigio, sciolto dalla grande tradizione. Anche in Calabria al mutamento antropologico e gnoseologico omologante il passato si risponde con il tentativo di recuperare una identità che diventa sempre più labile e minacciata dal consumismo, sempre più relativa, funzionale alle diffuse strutture burocratiche del terziario, dell’aziendale, della società delle masse.

In questa realtà il poeta non è più di estrazione popolare (cioè proletario, sfruttato), non è immediato ma è filtrato dalla cultura, ha un lessico più povero. Lo stampo della tradizione letteraria regionale è oltrepassato perché esistono nuovi bisogni ma le sparse radici sono tenute presenti nella varietà di modi espressivi e di atteggiamenti che spesso comprendono il vecchio folklore, errati richiami, nostalgie senza echi. Ma ci sono anche opposizioni alla società nazionale quale si è venuta configurando nei suoi trasformismi di questi ultimi anni sicché troviamo poeti satirici in contrasto con il mondo local-egemone, poeti lirici che esprimono le loro crisi anche esistenziali.

Possiamo dare solo cenni, sugli altri poeti o verseggiatori dialettali: Domenico Vitale di Gagliato attraverso ‘I zzìppuli (1964) ha cantato elegiacamente la propria infanzia (è nato nel 1895) sentimentalmente:

Beddizzi ’e focularu;
majìa de ’stu mumientu:
’u zuc-cu està n’ataru,
’a casa è ’nnu cummientu!

La nota della nostalgia d’altri tempi è in Pèttina e lizzi (1977) di Emilio Barillaro («tularu», «pistuni», «mulinu», «piroci» sono elementi della nostalgia); in Domenico Cutrì di S. Eufemia di Aspromonte (dove è nato nel 1902) ci sono motivi occasionali e altri umoristici; al faceto tende Mario Vincenzo Careri di Ardore in Pe’ susu e pe’ jusu (1963); nel mondo paesano rimase chiuso Dario Galli (1914-1977) di Nicastro che svolse con arte il filo della memoria; vigorosi accenti sociali sono in Micu Pelle di Antonimina e in Pasquale Cavallaro, confinato a Ustica, poi sindaco di Caulonia e creatore della famosa repubblica nel 1945; in Lu comiziu di li lupi c’è l’ideale di giustizia di un grande utopista e di un grande dirigente quale fu il Cavallaro il quale nel 1939 rivolgendosi a un agrario scriveva: «ti canusciu, vecchia pippa, | quannu mpresti tri dinari | ndi voi centu pe ’ssa trippa» e in altro componimento eguagliava, nel quadro di ingiustizia sociale della Calabria, monache e frati a marchesi e baroni:

ma lu santu frica frica
di fratelli e di sorelli,
fa lu paru e lu paricchiu
cu marchisi e cu baruni
e s’hai puru menzu spicchiu
tu lu megghiu hai mu nei duni;

per Luigi Polistena di Mileto la poesia è «l’anima chi canta» in Hjavuru du pajsi mio (1982), per Giuseppe Oliverio di S. Giovanni in Fiore il motivo suscitatore di sentimento e di umorismo è «scara ca truovi» (1982); Attilio Romano di Paola (1935) è deciso nel ritenere che il poeta non debba essere solo elegiaco ma viva operando nella società; il suo dialetto è personale, come poeta sa iscrivere i motivi in un mondo, in una struttura, sa creare situazioni che innalza liricamente con perizia veramente artistica; alla sua struttura è vicino Rocco Ritorto di Foca di Caulonia (1923) nel quale la poesia tocca diversi generi, segno della ricchezza interiore e umana; egli osserva dall’interno il mondo della realtà calabrese nelle sue mutazioni troppo stravolte e al fondo della quale scorge la legge dello sfruttamento e dell’approfittamento delle condizioni dei deboli; poeta satirico-lirico sia in ’A hjaratta (1979) che in Jancu e nigru (1990) Ritorto ha personalità umana vigorosa, esperienza di vita di lavoro, di politica, di scuola, ha autoironia; padroneggia il dialetto come un domatore di parole, nulla è in lui approssimativo, le parole vengono estratte con il loro colore naturale ed è operazione ideologico-formale perché Ritorto nel mondo del passato ricerca quella poesia (non la nostalgia) che non c’è nel presente: il passato è sentito come umanità, il presente è degradazione, caduta degli ideali: gli amministratori sono diventati «cordata di grandi lantruni», le disparità sono eccessive: «cu’ cogghi alivi e cu’ si futti l’ogghiu»; c’è nel poeta una coscienza civile che lo porta all’invettiva contro i «latri eleganti». L’ideale è per Ritorto la ricostruzione dell’uomo nella sua interiorità mentre gli infami politicanti con il voto falsato di un «vovalacu» fanno un uomo soprannaturale; è evidente lo sdegno di Ritorto contro coloro i quali hanno tradito gli ideali politici; egli rappresenta scene, fatti, figure per esprimere il sentimento, traduce in arte la visione sulla linea della migliore poesia calabrese dialettale; Leonardo Alario di Cassano (1942), studioso e ricercatore demologico, fondatore in Calabria dell’Istituto di ricerca e di studi di demologia e di dialettologia, in ’U pinzìeru (1993) è distante dal poeta che si catapulta metafisicamente fuori dell’ambiente; anzi esprime l’unità di sé e del proprio paese con toni lirici che derivano dal reale; per questa unione il poeta non ha sbavature linguistiche, le parole sono aderenti al pensiero e al sentimento; diamo la traduzione di due belle liriche:

Vorrei precipitare
in un burrone,
per vedere se verresti
a piangermi,
poiché l’amore
fatto solo di parole
radici non ha
dentro il cuore,
Son due macigni
gli occhi tuoi,
che mi schiàcciano il cuore.
E non li èvito,
perché sei più forte tu?
E ti giro attorno
come tròttola
lanciata con lo spago;

Antonio Martire di Pedace poeta asciutto in Ssa vita (1981) porta alla luce un mondo offeso e le sue poesie «fanno pensare a quei muri a secco di pietra che un po’ in tutti i paesi calabresi sembrano insistite sottolineature di un secolare destino di indigenza» (Giulio Palange), storia di cose salde, se stesse: meglio non si poteva dire per indicare l’asciuttezza e l’essenzialità; Raffaele Zurzolo di Polistena in Care memorie (1970) demistifica il mondo moderno del consumismo, scopre gli aspetti anche ridicoli di tale mondo, in Lu Vangelu di Cristu (1985) espone la vita di Cristo in modo umile e solenne, a seconda delle circostanze, come anche in Li fatti di l’Apostuli (1991) traduce in versi della Piana di Gioia un testo che ha rispondenza spirituale e psicologica nella religiosità del territorio; il linguaggio è solitamente di tono medio popolare per esprimere le situazioni interiori; così anche in Sonetti e favole (1980) il linguaggio è arguto, faceto, collegato con il realismo del mondo contadino; allo stesso mondo di Zurzolo appartiene come poeta Ettore Alvaro (nato a Catanzaro nel 1906 ma vissuto a lungo a Galatro e a Polistena), conoscitore della poesia popolare calabrese, ma soprattutto del lessico dialettale, è abile sia nel trattare la vita del paese che la vita degli affetti; dopo alcuni volumi di versi di ricordi (soprattutto di Galatro, su cui si veda anche Galatru mia! del 1979) di vita popolare (anche Festa paisana d’atri tempi del 1980) Alvaro si è rivolto ai ricordi delle feste religiose, fermati nella memoria in modo incisivo e indelebile: così in Patannostru e Avi Maria (1983), che segue a Via crucis (1982), a ’A gonìa e ’a inchianata ò Carva-riu (1976) sono le parafrasi poetiche di momenti della vita religiosa popolare sentita nella ritualità in modo icastico e incisivo; la varietà dei poeti ricordati indica che col procedere dell’unità linguistica (culturale), il dialetto è non una alternativa alla lingua ma una varietà espressiva che rientra nelle tensioni e nelle poetiche della poesia in lingua; ma c’è anche una forte tendenza che rigetta sia il dialetto quale variante espressiva sia la riesumazione del dialetto.

Due poeti artigiani di Curinga sono i fratelli Giovan Battista e Giuseppe Vono; il primo (1898-1971), sarto, diresse una compagnia filodrammatica per aiutare i poveri bisognosi, scrisse d’amore per una donna, lontana, che lo tenne legato a lei col pensiero per tutta la vita, scrisse della crisi degli anni 1936-37; Giuseppe (1891-1975), sarto, militante socialista (turatiano), antifascista, compose versi giocosi, festosi

(Giuvanieddi, tenitivi stritta
chidda cosa chi aviti devanzi:
mo nc’è a Ccurga na murra de panzi
tutti chini… cumparzi de mo’),

sulla fame del 1936-37

(E cchista dittatura,
chi cchiamanu suvrana,
cu ffacci de pputtana
nega sta verità!…);

Giuseppe Dattilo (1889-1979) di Ardore, colono, semianalfabeta, cantò la giustizia, la fratellanza, in versi elementari che hanno la dimensione della poesia delle origini della lingua: «ti raccumandu cu nostro Signuri, | cu la potenza sua ti ha benedire | e mu ti assuma come l’acqua a mmari», «E se la vita mia dovrà fallire | voi tutti la dovete rispettare,| – e quandu giunge l’ura di morire | un monumento gli dovete fare | e un grande libru dovete scriviri, | tutti trovati lodi di cantari, | tali ricordo caro aviti a tiniri | sinu alla fine de lu vostro campari», «Appena jornu ca s’illuminava | supa un quadernu stu fattu scrivìa, | questo ricordo ai miei figli lasciava | ch’era il più gran valore eh ’ndavìa», «Da pochi giorni mi vedo arrivare | un giornaletto che mi sa istruire, | m’insegna come devo lavorare, | m’insegna come il campo a custodire, | m’insegna come ho gli alberi allevari», «qui non ci sono uomini istruiti | su’ analfabeti comu simu nati, | quei tempi camminavano ’nfelici | e scoli ’nta sti zoni mai su stati»; a Bovalino è nato nel 1921 Rosario Dattilo che ha partecipato alle lotte contadine del suo territorio; la sua cultura è quella popolare e quella dei cantastorie (delle gesta di Giuseppe Musolino); tra il 1960 e il 1978 ha raccolto le proprie riflessioni sul mondo contadino del quale è stato poeta organico parlando del lavoro disperato («Cui lavura mai poti arricchiri»), della sua cacciata dalla terra, delle alluvioni, dell’emigrazione dal paese; altro poeta contadino è stato Michele Strati del quale il cugino scrittore, Saverio Strati, ha pubblicato versi sulla lotta di classe, sulla vita militare; Filomena Stancati di Nicastro ha raccolto nel 1993 in Volanu Vanni i suoi versi che rievocano il mondo popolare con operazione consapevole di recupero di una terminologia che va scomparendo e di un mondo di affetti e di usi che si è quasi dileguato; in una Antologia circa quaranta poeti del territorio reggino i quali scrivono in dialetto e fanno parte del centro culturale «Il Grifo» sono stati raccolti (1992, II ed.) da Mimmo Scappatura (fra essi troviamo Giuseppe Ginestra, Domenico Martino, Ettore Pensabene, Gaetano Previtera e, originalissimi e moderni, tre componimenti di Pasquale De Filippo): del sodalizio fanno parte Gigi Campagna che in Terra ’bbandunata (1991) depreca la corruzione della città (il cui casato è «chiddhu di Giufà»), gli infingimenti nei rapporti sociali, la stoltezza di quanti, pur ritenendosi «ddritti», «si ’mmàzzunu ’ntra iddh’e stannu zzitti»; Campagna ha anche un registro lirico-affettivo e uno gnomico-etico che coesistono con equilibrio; Pasquale Calcaramo di Reggio (1941) dopo ’Na storia ha pubblicato (1986) Cosi chi capitatimi con scene vivaci di vita e di costume cittadini e con tendenza all’epilogo umoristico (il vero profumo per la donna: «Non veni né ’i Parigi né ’ill’Orienti. | Comu si chiama? Sciàuru di sordi») o a quello morale.

Allo stesso sodalizio appartiene Giuseppe Morabito (1928), reggino, autore di numerosi volumi di poesia dialettale nei quali si riflette la vita della città nelle difficoltà sociali, individuali, nel malore di questi anni; i riflessi sono mediati e si manifestano, da parte del poeta, nelle considerazioni esistenziali di «Cusì è la vita!» o nella compassione verso i vinti, i poveri, i derelitti, nel populismo che privilegia la pietà sulla giustizia. Ma Morabito non è solo in questo atteggiamento, egli è un vero narratore in versi di vicende vedute anche dai punti di vista popolari di persone confuse, dai limitati orizzonti, in balìa degli amministratori che le hanno private del sentimento civile; Morabito in L’undata (1986) ha già uno sguardo ampio sugli argomenti sparsi della vita scontenta e individua i saccenti, i presuntuosi, fa la caricatura dei personaggi che si esauriscono nelle forzature del carattere, spiega gli errori, le esagerazioni, i mancamenti, avvia un procedimento illuministico anche attraverso l’ironia e qualche volta stringe in modo più serrato le questioni, quando si rivolge ai suoi «reggitani» perché non si facciano «’mbardari» dai soliti sfruttatori, prendano coscienza che avranno, seguendo i malfattori, «fossi, mundizza e sùrici»; gli elementi sentimentali o esistenziali sono da vedere in questo quadro illuministico che depreca il «problema i Giufà». Così si oltrepassano il pietismo e il compiacimento di tanti verseggiatori che piangono sui mali e se li coltivano perché la loro visione è descrittiva o esornativa o paternalistica. I mali qui vengono fuori ma il giufaismo non viene visto nelle sue origini e nelle sue qualità deteriori come per i personaggi che pesano sui mali della città quali «’u rinisciutu», «’u tuffiaturi», «’u maffìusu»; quest’ultimo

porta ’u camuffu i sita pi cravatta,
quandu camina trèmunu li petri […]
s’annaca i spaddhi e ttira lu collettu,
[…] si sparma supr’a testa ’a murga i ll’ogghiu
[…] cu’ddh’occhi ’mbuscicàti, a ppisci i scogghiu,
ti varda stortu e vùnchia ’u bucculàru.

Morabito non è monocorde, ha ampio raggio di contenuti (i casi della vita nei loro aspetti sentimentali o satirici), il suo verseggiare è principesco, non vi si nota la durezza prosastica, stentata di coloro che non conoscono il linguaggio dialettale e scrivono versi (cioè si esprimono in versi pesantemente) solo perché vanno a capo del rigo ad libitum; il dialetto è ricco perché conserva i termini appropriati di una tradizione che si estingue o si stinge, esso è organico al mondo rappresentato, mai approssimativo, la musicalità è interiorizzata: si sente che il poeta non «acciavatta» (come scriveva un uomo di Stato che amava la poesia e l’arte a proposito delle quali diceva che non gli piaceva l’acciabbattare; era Sigismondo Malatesti di Rimini) ma ha cura artistica minuziosa: senza la quale cura profonda artigianale non vi è poesia. Morabito ama la sua città e vorrebbe che in essa dominasse la concordia civile, sogno di un illuminismo che ha sempre esaltato la guida intellettuale e razionale, di un accordo tra cultura e politica. La Reggio degli anni Ottanta rappresenta il degrado ulteriore della città di Giunta dominata dagli eponimi accumulatori del drenaggio capitalistico: l’unione politica e militare di parte degli amministratori con la mafia è il séguito dell’evoluzione del degrado politico e civile, dell’insorgenza di bande di irregolari protetti che hanno preso possesso con la violenza della città. In ’A vita (1988) Morabito indica elegiacamente – nel confronto con la città «ornata d’aioli» – il degrado (morti ammazzati, poltrone di potere diventate proprietà) della città, il pericolo della serpe che «non si poti ’ndomitari» se non si mutano i parametri dei valori; ma il suo disprezzo per i disvalori ha la forza artistica per tradursi in espressione individua, in linguaggio che supera la posizione oppositiva. Parliamo di vigore artistico per tradurre in linguaggio poetico, cioè in arte, la posizione ideologica la quale, del resto, ha come base «’na spisiddha di spiranza»; nell’animalistica, opportunamente introdotta per trasferirvi un mondo di vizi, il dato naturalistico, non evolutivo, immutabile, è prevalente (al mondo ci sono sempre «ndrolli e babbasuni», gli animali a convegno propongono, per salvarsi, di fare una preghiera al papa, la sorte degli animali è sempre decisa dal padrone, ecc.): si potrebbe sostenere che in quell’inettitudine è la mancanza di volontà civile, la disorganizzazione razionale della città.

Anche in Comu ’na fògghia (1990) Morabito è in bilico tra Reggio «riggina di la Calabria» e Reggio città «di maffiusi e ruffiani», tra armonia e sfasciume, tra ideale e reale; la salvezza della terra dalle bombe non può essere affidata solamente al Trascendente (che la sua quota di provvidenza l’avrà già messa sulla bilancia); il virtuosismo porta il poeta talvolta a finali di effetto, da bozzetto ma lontanamente dai princìpi (in Violenza cuntra ’e fimmini è, invece, la moglie che manda il marito all’ospedale: è falsata la storicità, è rafforzato l’effetto comico, contingente). Il virtuosismo (che è la ricercatezza) non deve farci dimenticare la virtù, già ricordata, del tecnico, dell’artefice Morabito, soprattutto di figure femminili: «Janghi a schiocchetti e mussu di girasa, | siti comu na puma delizziusa», «Signura chi l’aviti pizzi pizzi | ’a vesta a sciuri, culurata a sprazzi, | ’ssa spacca longa e ffràngia di spilazzi…» dove le rime facili sono sollevate e quelle difficili accarezzate come accarezzato è il ritmo barocco della caducità («Chi rresta da to’ brevi cumparuta?») che riproduce l’eco di tanti testi secenteschi.

Nelle Favole (1992) Morabito è lontano da secoli di favolistica in relazione con l’umano, dall’esemplarità del classicismo, dall’allegorismo cristiano o borghese, dalla separazione illuministica di vizi e virtù; è vicino a Creazzo e a Butera i quali nell’animalistica trasposero la lotta per la vita come legge, videro che la legge formale aiuta i malfattori e riflette il sottosviluppo (che in Morabito è quello della città, non della campagna), registrarono la crudeltà degli animali e l’aspirazione a un mondo di energia morale, di libertà. Anche in Morabito troviamo i rapporti di miseria, gli inganni, la tensione animalesca dell’ingegno verso la sopraffazione e l’eliminazione, la doppiezza della ragione a seconda che si tratti di sé o degli altri, il fine supremo dell’utile, in ultima analisi il mangiarsi l’uno con l’altro. La necessità primordiale domina su tutto, l’intelletto è scarso, l’assoggettamento è il simbolo della legge della forza che trionfa, gli «’ndrulli» sono l’informe, il non organizzato, il non vincente. Gli uomini vivono come se fossero nella selva delle origini ferine, la base della loro civiltà è l’omicidio ma c’è anche nel loro costume la vendita dei figli. Gli animali sono calcolatori, considerano anche i vantaggi dell’arresto a domicilio, l’urbanizzazione è vista da essi, dal loro punto di vista, come un regresso, come una perdita delle loro qualità tipicamente animalesche, la cicala che canta l’inno a chi lavora si finge progressista, topi e gatti congaudono dello sfascio del Comune perché possono trarne vantaggio ed eliminare la guerra tra di loro, porco e capra hanno come destino il macello e sono rassegnati, le lumache strisciando ottengono i posti di comando, i vermi sono parassiti come i deputati, il pollo è sempre vittima della volpe, il gallo che si finge gallina segue la sorte di queste, il rapino è traditore e malvagio, il gatto spaccone è divorato dal topo, ecc. Il riferimento alla situazione storica reggina – una città in cui una società civile di corrotti avvia la malavita al potere per potere rubare in combutta – non ci pare pertinente perché in tal caso il rapporto avrebbe dovuto portare altro impegno artistico. Ma le situazioni favolistiche sono svolte da Morabito con brevità, stringatezza che sono qualità di base del grande artigiano che sa maneggiare strumenti e metodi, durate, misure, linguaggio come Morabito riesce bene a fare, da poeta di vigore.

In ’U prima e l’urtimu di Pietro Gallo di Molochio (1982) il «vedànu» è l’ultimo essere della scala sociale, il niente («nudu»): il poeta traccia fin da principio una linea al di là della quale, storicamente, è stato sempre il villano (inferiore, condannato, diverso, assoggettato, strumento, carne da cannone, vittima, illuso, emarginato, emigrante, deformato, ecc.). Nell’epoca attuale il villano nei nostri paesi interni è passato, sempre come oggetto, per diverse fasi e il Gallo in quest’opera – che ha un valore storico-culturale notevole per la sua rappresentatività – intreccia ideologia e arte: cioè il villano come è visto dal sindaco privatista, scettico, antidemocratico e il villano rappresentato dal poeta nelle situazioni in cui si viene a trovare. Nell’operetta non c’è idillio, non ci sono aggettivi ma fatti, situazioni, il materiale è vario e ricco. Originale è la struttura: l’antitesi sindaco-villano nella quale il primo cittadino rivela nelle battute furbesche (secolarmente furbesche e sfottenti da parte dei dominatori) lo squallore del suo piccolo potere, la retorica della mediocrità politica. Il filo della inanità di chi comanda si svolge in fili sottilissimi, in tentacoli minimi i quali costituiscono una rete di vergogna, vecchia e tradizionale come in tutti i momenti reazionari della nostra storia.

Certamente il fascismo è stato storicamente un fenomeno reazionario di massa ma non pochi elementi in esso confluiti sono eredità di precedenti situazioni di epoche dogmatiche, controriformistiche, di dominio di classe. Il sindaco che esorta l’emigrante a partire e fare figli perché questo è il suo «orgogliu» (ma De Gasperi non aveva detto «prima vi ndi iti | e megghiu staiu»?) ma che lamenta la non conoscenza della «pìnnula-inconcezzionali» da parte dei villani rimasti in paese è un piccolissimo borghese saccente, sufficiente, astratto, antipopolare, infantile (sempre pronto a vantare la forza del proprio padre egemone e prepotente), privatista, diventato amministratore per tradizione familiare e danaro. Estraneo al mondo del lavoro, dileggiatore delle donne che scioperano per la diga sul Mètramo, azzarda vacue battute esistenziali con una vecchietta che gli risponde per le rime, con il villano Pasquale che lo smidolla con le proprie conclusioni. Circondato da vicesindaco ladro, da assessori opportunisti (che accusano i baraccati di non conoscere le leggi) finge di avvertire «l’esiggenzi | d’u populu minutu» con un linguaggio che è retorico quando è serio, furbesco-antivillano quando è faceto scaricatore di responsabilità normali e connesse con la carica: in ogni caso il villano è «nimali», «camurrista», «nenti», «stortu». Le sue battute rivelano l’inettitudine, l’infingardaggine, l’incapacità razionale di esaminare un problema (ma anche i vincoli di classe che glielo impediscono); la sua etica si risolve in «na cosa esti aviri ’u scettru a manu | n’atra esti esseri vedànu». L’assessore indifferente ai bisogni popolari mena il can per l’aia come il sindaco maestro di ideologia di classe con i seguenti corollari: che «se menti i mani | nt’o pettu d’i vedàni | chi mai nc’è?», che «’a vedàna | s’a poti strapazzari | avanti e arretu ’e porti, | ma no’ pemmu s’a pigghia pe’ cunsorti», che S. Rocco è uno suonato perché «abbanduna ’a nobbirtà | u cura l’appestato», che non si possono prendere provvedimenti amministrativi perché Andreotti è caduto, perché in Persia è avvenuto un colpo di Stato («va’ pensandu ’u cuntrattu. | Ma tu sì propriu matto»).

Quest’operetta ha una sua genialità in quanto caratterizza artisticamente una situazione storica: masse di lavoratori che chiedono, in questo dopoguerra, in nome della giustizia, del diritto, dell’eguaglianza, lavoro, case, pane, libri, igiene e un burocrate balordo (ma balordo di classe) contornato da amministratori disumani arroccati sui propri privilegi. Siamo lontani dalla poesia dialettale calabrese che esprime nostalgia del paese di un tempo in modi romantici, crepuscolari o bozzettistici (ha ragione chi teorizza che questo dialetto è riflesso, calco dell’italiano) senza vivere le situazioni culturali del presente e senza aprire gli occhi su ciò che avviene intorno.

Gino Bloise nasce nel 1926, la formazione e la maturazione avvengono dalla seconda guerra mondiale in poi, quando in Calabria si sviluppano le lotte per l’occupazione delle terre. Dai Serra ai Toscano la storia è narrata da Giuseppe Grisolia e dalla fine degli anni Quaranta l’attività di Bloise si unifica con quella del movimento contadino (soprattutto intorno al 1950 con scioperi alla rovescia, occupazioni di terre, conquista del Comune, imposizione della massima occupazione).

L’attività di Bloise si svolge a Cassano, allora vasto e complesso paese contadino e centro degli affetti del cuore di quello che sarà poi il cantore del paese stesso ed elemento centrale della poetica di Bloise narratore della vita della popolazione.

Bloise vive giovanilmente le lotte popolari; dal 1956 in poi la politica nazionale abbandona miseramente il progetto di rinascita del Mezzogiorno, consegna la nazione alle multinazionali, decreta la più grande migrazione di lavoratori che si sia verificata, dal Sud verso il Nord, nella storia d’Italia.

Nelle prime poesie di Bloise (Il mio paese, 1968; 1974) la cultura popolare è presente negli elementi leggendari, fantastici, religiosi. Un aspetto dell’impossibilità di reagire contro i diversi modi di oppressione con coscienza storica (di classe) è la pietà religiosa. Nel sentimento religioso confluiscono le condizioni di disagio economico e sociale, la mancanza di sicurezza, in quel sentimento può agitarsi una potenzialità rinnovatrice. I riti magici e religiosi nascono anche dall’associazione psicologica collettiva contro la paura, come difesa esistenziale: in una società divisa in classi, dominata da baroni e notabili, i Santi appaiono i patroni liberatori dai pericoli di guerre, fame, terremoti, epidemie, ingiustizie. Le feste religiose, i pellegrinaggi accomunavano nel sentimento di liberazione i contadini dominati dallo sfruttamento, dall’inclemenza delle stagioni, dalle malattie e rappresentavano un momento di solidarietà del mondo popolare, un riconoscimento di sé nei rituali di offerte, voti.

Importa notare fin dai primi versi di Bloise il superamento del pascolismo mediante il tono precettistico-prosastico del raccontare. La poesia prosastica di Bloise narra le tradizioni del popolo, il passato come valore, non come elegia regressiva:

Agghiu capiti alluri
che non tutti i cosi vecchi
ana murì,
picchì su cuntri u prugressi.
Agghìu capìti
che ssi caccièmme tutti i cosi
non putimi mai capì
cumi vivìi ’a gente primi i nui.

Il ricordo di U mmolaforbici e di U sanapurceddi è legato alla presenza di artigiani di abilità manuale, tecnica, nella quale si assommavano esperienze di secoli ma anche attività di fantasia e di creatività. Non è un caso che gli artigiani siano stati protagonisti del protosocialismo, del repubblicanesimo, dell’anarchismo: «ci si iittàvini | cumi a pisu murti | e sfunnàvini i porti».

Lotta delle classi oppresse e cultura popolare si identificano e fare la storia in versi della cultura popolare implica anche la demistificazione dei caratteri assegnati alla cultura popolare dalla cultura ufficiale (l’ingenuità, la primitività, il pittoresco) che costituiscono il depotenziamento del naturalismo. I modi espressivi tecnici del cantastorie sono quelli omologhi, oggi, al giornale parlato di informazione; perciò il linguaggio è facile, piano, con andamento prosastico e antilirico (il precedente più noto è quello dei fogli volanti di Pasquale Creazzo che durante il fascismo cantava la vita degli zappatori della Piana di Gioia Tauro e indicava ai lavoratori i modi di opposizione al fascismo).

Il modo di vedere la poesia di Franco Galiano (Sciascià, 1989) in Cume na frunne i masilicòje:

nu jàte vasce […]
na frunne pizzènte
i masilicòje ca si sfrucinìjade
cèsse nta na mane
e ti rimànide nobbulìnne
n’addùra longhe
i cose nnamuràte!

Il profumo di cose innamorate è rimasto ammirativamente e consapevolmente nei versi di Galiano come nostalgia di valori umani del tempo passato, come sentimento di bellezza espresso da persone e paesaggi del tempo in cui si viveva diversamente. Galiano rivela quasi per frammenti (con memoria della lirica greca) la bellezza dei sentimenti: la fanciulla che regge con la mano la treccia lunga infioccata di giallo, l’atmosfera smagata della terra del Mazzuco, la fanciulla ricciuta che vede il proprio volto nell’acqua, le sorgenti d’acqua che sembrano essere l’una eco dell’altra, le sassifraghe che pendono a mazzi gialli, la bara della centenaria che se ne va come foglia di acacia nel vento di marzo ecc.

Tutto si concentra nel ricordo della vita vissuta, di situazioni vere per la loro pienezza e che non esistono più sicché la poesia di Galiano ha in sé qualcosa del perduto, dell’irrevocabile che è nella musica sudamericana del tango: dove sono le vie del paese di un tempo («Caminito, que en todas las tardes…»), dove la suora che a vederla sorridere era come «si gune pinsàsside i vijòle!», dove la suora dal nome di passione, dove il cimitero, le prediche del domenicano?

Abbiamo fatto il discorso della liricità perché ci troviamo non di fronte a un poeta sciatto e prosastico ma radicato nella vita del paese e capace di sentire antropologicamente la realtà, sulla base di una cultura popolare che per lui rappresenta il centro delle esperienze. Il luogo diventa musica interiore con i personaggi dotati di intensa vita umana che sono storicizzati dagli elementi che il poeta vi porta: i ragazzi che giocano a sbattamuro, le superstizioni delle ragazze che credono di vedere il demonio, il chierichetto che gioisce nel vedere il sangue dei galli «ccu na criste ncazzùse», il bambino neonato il cui ricordo richiama il profumo di orzo dalla caffettiera, la vecchia che si compra la bara per non essere dopo morta di peso ad alcuno, Vincenzino che fa valere l’amore per Sciascià quando gli dicono che la ragazza è povera e dissipa le sostanze del padre insensibile.

Animali, piante, uomini e donne vivono in una sorta di simbiosi, di solidarietà, di aggregazione. Ciò spiega anche gli elementi giocosi di questo mondo, del gioco sentito non solo come evasione ma anche come partecipazione al sogno e all’avventura: vino, balli, scherzi (il bambino che orina sul sindaco, i ragazzi che materializzano la morte per spaventare l’organista, che mettono una serpe nel letto di Serafina vecchia, che riempiono di ortiche le brache di un loro compagno) contrassegnano il ricordo.

Il dialetto impedisce la caduta nell’iperletterario come avviene nella poesia in lingua e riproduce nel suo arcaismo (un dialetto dell’alta Calabria, non annacquato, vigoroso, ricco di radici aspre, di peculiarità idiomatiche, capace di tenerezze inusitate) l’odore delle cose innamorate; si veda nei componimenti di ricordi il richiamo a oggetti e consuetudini scomparse.

Anche Dante Maffia di Roseto Capo Spulico (1946) in A vita i tutte i jurne (1987) e in U Ddìje poverille (1990) oltrepassa la funzione mimetica del dialetto, nello spazio di esso fa rivivere la lingua-madre lasciando da parte ogni motivo vernacolare, ispirandosi all’intimismo della linea del primo Novecento. Maffia è lontano dal gergalismo ma anche dallo sperimentalismo, le sue misure sono umanisticamente colte, temperate nel sentimento di solitudine; si veda come in un paesaggio scenda l’umidità con la tramontana che porta un suono che viene da una oscurità lontana e si diffonda il sentore di un’aria di grotta o in altro paesaggio di campagna simbolica (di cartapesta) spicchino la ruota di un traino, uno straccio di Pantalone come in un dipinto di Enotrio; ma su tutto dominano la solitudine e la malinconia del tempo nostro poetico, dell’uomo che resta sempre fuori, della vita che si riduce a zero: il linguaggio dialettale per Maffia dà sostanza alle cose, le fa nascere da una fiammata di acqua («da na vampe ’i gacque») e in verità il poeta riesce ad esprimere le più varie situazioni della vita, della morte, dell’amore con epicità lirica; l’intimismo s’innalza nell’invenzione superba quando Maffia osa e trascende, quando lascia il razionale come nelle ultime liriche di U Ddìje, libro che è un capolavoro della letteratura calabrese (tale è anche I rùspe cannarute, 1995).

In Achille Curcio di Borgia (1930) esiste una tradizione dialettale lirica che si viene distaccando dalla matrice arcaica del parlare vernacolare ed esiste anche una tendenza ad arricchire quella tradizione con incastonamenti linguistici dell’italiano, con apporti soggettivi, con mutamenti metrici utili a spostare l’accento verso il linguaggio della poesia sia nei temi civili che in quelli di affetti domestici, di vita paesana, di amore per la sua terra. Da queste impostazioni di base deriva in Lampari (1971), Hjumara (1974), Visioni del Sud (979) uno svecchiamento della problematica poetica compattamente usata nella lirica dai poeti dal romanticismo in poi. Curcio intende rinnovare le tecniche compositive e vi riesce cominciando dalla metrica che diventa più varia e spezzettata (e più musicale, alla maniera di Pane), tale metrica corrisponde alla mobilità interiore, alla visione in cui sono registrati rapidamente le impressioni e i turbamenti dell’animo. Non si tratta di un rinnovamento assoluto ma di un ricompattamento più moderno dei temi della lirica tradizionale.

Il tema della Calabria continua a essere centrale ma accanto a «lu splendora» il malore civile fa vedere le disuguaglianze fra i cittadini, alla descrizione esornativa degli ambienti familiari è sostituita la notazione essenziale dei fenomeni che esprimono il sentimento («Pan- nizzija senza ventu | e u paisa addormentatu | senza sulu nu lamentu | de nu cana abbandunatu», «E cuntu lu peniju de la luna | quandu na negghia scura la cumbogghia»); i limiti sono sempre quelli consueti ai lirici del tempo (il populismo compassionevole verso i miseri, la rassegnazione dell’asino il quale sa che non cambierà sorte col mutare padrone, la vecchia che fila: bozzetto di ascendenza casalinuoviana) ma accanto a contenuti civili e sociali critici (i trasformisti che si attaccano al carro del governo e diventano i perni della società, gli sciocchi che sono fatti passare per letterati, gli asini che «diventaru sberti e capizzuni»; basta «cuzzari la cudiddha pecurina»; i mutamenti falsamente moderni: «L’onestà è nu pregiudizziu | la cultura è na virgogna, | lu decoru è ormai nu vizziu | chi ti mustra na carogna») troviamo il motivo del tempo che passa generando paura, della giovinezza legata crepuscolarmente alle ombre dei compagni di scuola, del mondo che gira «comu nu strambu vecchiu» e della morte che è dietro l’orto. La sola uguaglianza esistente è quella della morte («mora u sciancatu o mora nu baruna | sulu allora capisci l’uguaglianza») ma il poeta individua fin da allora i politicanti infami in coloro che ostentano la «virtù de na crucia ed acqua santa», in chi «pecchi socialista | promenta li posti d’usceri e archivista» e registra il fenomeno delle tangenti: «stu tala, chi usava la manu mancina, | appalti de strati futtendu lu statu | avìa parinchiutu de sordi a cantina».

I modi per oltrepassare il paese realistico sono in Curcio la decantazione mitica, la visione nostalgica del passato, il confronto ironico con il presente scadente, la liricizzazione del confronto, l’uso della saffica che musicalmente trascende e sfuma il reale (grandi maestri il Pascoli decadente, il D’Annunzio alcioneo, il Carducci delle Primavere elleniche e di talune Barbare) e porta suadentemente nella solitudine esistenziale del ricordo, del perduto, dell’autobiografico, del simbolico, del crepuscolo, del cantabile, nelle infinite malìe e secche del soggettivismo; il Casalinuovo come tanti pascoliani si avvolse in tali malìe magiche e se ne compiacque fino a non uscirne tematica-mente né formalmente. Pane si sciolse spesso nel digiacomismo delle cantate o delle suonate con le chitarre; Curcio risente le ciaramelle, vocalizza la «hjumara», assapora nostalgie di muretti e «scaluni», di «ntinne» (la grande «ntinna» è la vita) ma porta di nuovo spicchi di luna, corde di stelle evitando la dolciura sentimentale, porta cieli nevosi di febbraio e l’anima sua

si chica quandu u ranu
undija comu fussi pezzu ’e mara,
e supra u virda vidi de luntanu
na paparina russa chi cumpara

ovvero ascolta

Acqua de marzu chi prepara a festa,
acqua cchiù fina quasi d’e capiddhi,
basta nu pocu ’e sula ma t’arresta,
ma sciampra i stiddhi!

ovvero il poeta cammina sotto il solleone:

Comu pediju viju l’umbra mia
chi mi camina avanti nte la strada
e quandu arrivu all’àngulu d’a via
resta mpittata.

Il tempo delle stagioni, dei ricordi, quandu è l’incipit lirico ovvero è l’asseverazione sostantivale o aggettivale (Notte de luna, Queta comu na serpa) o proverbiale (Amaru cui non ava e va cercando) che innalzano, generalizzano la situazione, la purificano con l’assoluto, la liricizzano, la rendono vicina a quella dei grandi poeti; né è disdegnata l’antitesi che assolutizza e dichiara: «Nescia […] | ma l’omu nescia e mora | e cchiù non torna».

Con questo procedimento Curcio raggiunge punte espressive di rilievo, rinforzate dalla duecentesca forza di rime che danno verginità alla lingua:

Cui sciagra e non sparagna
nu jornu poi si mpigna
la casa, e pe na ntragna
li denti doppu ngrigna.

Siamo alla vera epifania moderna di Curcio che in Chi canti? Chi cunti? (1983) riesce a raggiungere l’autonomia poetica soprattutto dove la fantasia fa le sue prove più distaccate e sovrareali come in questo esempio, uno dei tanti, di trasfigurazione sentimentale della nebbia sul mare:

Pare ca ’u celu catta supra ’a terra
e tuttu scamazzau;
’u sonu de sta negghia
è nu lamentu
chi a vucia vascia canta na canzuna
e l’occhiu si riposa.
L’orologiu camina
e ’u tempu passa.

C’è in Curcio un versante satirico che troviamo soprattutto in Tirituppiti, cattaa lira (1976), ‘A scola è na virgogna (1977), ‘U populu (1979) in cui si colgono fin da allora taluni fenomeni di degenerazione politica e sociale e di antidemocrazia dei quali i più si accorgeranno quindici anni più tardi. La Regione come ente amministrativo ha avuto in Calabria una cattiva stampa per l’incompetenza e l’inconcludenza di molti funzionari e Curcio ironizza sull’ascesa degli asini che diventano presidenti, sull’aborto eventuale di tante persone che, se non fossero nate, non avrebbero costituito un pericolo sociale, morale, fiscale per gli altri («Ricordativi, cummari, | ca cui resta ormai futtutu, | nte sta terra d’intrallazzi | è stu populu cornutu»). Curcio nelle satire continua la protesta meridionale e calabrese contro i governi di classe che la regione ha sempre avuti: «nescia fora nu marpiuna | chi si futta la pappata: | cu i dinari si nda fuja | e ti facia na vrazzata», «Mi dicìa ca digeriscia | la benzina e li banani | comu fusseru pruppetta | cucinati a li tijani». Gustose sono anche le pagine sull’ignoranza nella scuola (dai maestri al provveditore) soprattutto dopo la caduta della tensione del rinnovamento e l’emanazione dei decreti delegati di Malfatti.

Ma il corposo ethnos regionale è ormai presente solo nelle satire che, d’altra parte, hanno intento polemico e illuministico. In ‘A ver-tula d’opoeta (1991) il linguaggio dialettale è pienamente strumento espressivo di poesia d’arte, di cultura, non più popolare; la visione è quella moderna di un poeta che si interroga sui problemi esistenziali, smarrito e sorpreso: «Nuddhu mi dissa mai | quantu sugnu li stiddhi | chi jocanu nt’o celu», «i paroli chi dicu | su’ così senza sensu, | chi restanu mpenduti | a na vucca hjaccata | e tutta nzuverata», «L’anima vogghiu ’u viju | chi vola apparigghiata a na palumba | e nterra cchiù non cada». Le tendenze principali di Curcio adesso sono l’idealizzazione esistenziale delle visioni (voci del silenzio, ombre e luci, ricordi ecc.), le sofferenze del poeta che scala la rupe della disperazione che graffia la carne e i pensieri (il modello è qui il Pierro della tragedia interiore), il poeta che nella bisaccia pesante porta sogni, storie, conforti, pene, ambivalenze della vita (guerra e pace, santità e peccato ecc.: pascolismo che vuole estetizzare, moralizzare la poesia rendendola affettiva). Il pericolo di questa poesia è l’idealizzazione eccessiva di lune, luci, notti, anima, stelle ecc. ma Curcio ha in sé sufficienti elementi di vita vissuta, di tradizione calabrese da sollevare in alto come poesia (l’esempio più alto nella Calabria è quello di Alba Florio che tradusse in linguaggio primo novecentesco la propria solitudine) per evitare di cadere nella letteratura bella ma di evasione, di ghirigori. In questo libro c’è il ricordo del padre, l’amore di paese assaporato solo attraverso gli sguardi, il sogno del paese rimasto nel cuore con

li vineddhi,
’a chiazza e nu mignanu,
sonu de ciarameddhi,
e mi restanu l’adduru
d’o pana ’e casa cottu cu bruveri,
’u sapura d’o fumu
’a sira a lu vrasceri,

ci sono le amanti che entravano nel suo letto venendo dai giornali e dalla carta stampata («Chi resta e chiddha genta?»). Da questo mondo interiore vivo, non letterario, derivano le grandi trasposizioni in arte di Curcio:

Si arresci ’u pitti ancora
i sonni de sta genta chi suspira,
pitta l’urti-mu sonnu ’e nu poeta
e ’u pinneddhu accarizza stu paisa
chi ti restau nte l’anima nchiovatu»;
’A notta a lu paisa
dormìa supra cuscini de silenziu […]
i trempi vombicavanu ammagati
quandu tornava maju
e ’u mundu stracangiava.

I modi lirici nella regione si intrecciano con quelli realistico-sati-rici nel ricordato Gaetano Previtera (Palmi, 1941), esperto di cooperazione agricola, il quale esprime argutamente motivi della disumanizzazione della vita (bio-ingegneria: «E sse ’nsìtanu ù cristianu | cù nu cori i nu serpenti | chi ddiciti nesci nenti | o na serpi a corìu umanu?», telecomando cellulare: «oramai i stu cellulari | ’nei mbi-scaru à malatìa | punì è prèviti all’altari!»). Nel caso di Previtera i motivi satirici dialettali hanno la stessa radice di quelli espressi in lingua (che Rea ha definiti «rigorosi e stringenti»): le strutture distorte della vita regionale (Consiglio-cabaret, Regione che elogia i fannulloni), locale, dell’amministrazione sono sferzate dalle metafore di Previtera dense di impegno civile attraverso lettere in versi, telegrammi in versi al sindaco, proteste letterarie.

Il dialetto è tenuto in vigore anche dalla tradizione della canzone calabrese alla quale, abbiamo visto, si sono avvicinati poeti come Pane, Giunta (e importanti musicisti), che ha ancora continuatori e meritevoli sostenitori come Mario Scarcella che ha fondato «Canta-Calabria».