VIII. L’età del positivismo

VIII. L’età del positivismo

1. Cesare Lombroso. Pasquale Rossi. Nicola Misasi

Nell’età del positivismo la cultura si caratterizza per la tendenza verso il reale, per il superamento del romanticismo mediante lo studio del vero con metodi scientifici o vicini ai procedimenti della scienza. La modernità nella cultura europea è rappresentata dal naturalismo, dall’analisi della realtà sociale. È il trionfo della borghesia nella cui carta di identità sono iscritte scienza, socialismo, progresso, natura, parole belle che spesso bisogna, però, chiarire per togliere le mistificazioni che nascono dai nomi ai quali si dà un valore falso, non corrispondente all’essenza. La scienza positiva antropologica, ad esempio, che voleva fare intendere di essere obiettiva mirava a criminalizzare i meridionali e i ceti subalterni inventando scientifiche superiorità razziste.

In questa età le regioni confluiscono nella nazione e la comprensione non può esservi se non c’è dialettica nella relazione e al momento dell’Unità la Calabria sentì che la propria individualità veniva diminuita perché invece delle cure necessarie a guarirla dalle conseguenze delle oppressioni storiche le venivano somministrate sanzioni e scomuniche. Si ha l’anabasi del dialetto che serviva per la protesta popolare, certamente la più ricca e originale tra le regioni italiane, ma sul piano del naturalismo o del verismo la regione esprime artisticamente in tono minore le proprie condizioni perché non è partecipe della cultura del positivismo e di quella poetica del naturalismo che erano i fatti culturali più moderni e più veri (e più avanzati) della Sicilia e di gran parte dell’Europa.

Non mancano gli studiosi che partecipano alla vita della cultura nazionale che vede il trionfo della borghesia e il suo ripiegarsi su colonialismo, imperialismo e reazione negli ultimi anni del secolo. Durante la grande emigrazione anche gli scrittori si trasferiscono, la nuova meta è Roma che attrae per il giornalismo e per le attività editoriali, anche Firenze e Milano sono centri in cui i calabresi operano. Ricordiamo taluni intellettuali che vivono in questa età che possono non identificarsi con il sistema positivistico ma che si trovano a fare i conti con quella cultura: Costantino Arila (1829-1915) di Aiello Calabro visse e morì a Firenze dove insieme con Pietro Fanfani allestì il Lessico dell’infima e corrotta italianità (1877) e, studioso della lingua parlata italiana, diede alla luce Voci e maniere di lingua viva (1895), Del linguaggio degli artigiani fiorentini (1876), Filosofia spicciola (1889); per Carducci fu un puntiglioso linguaiolo; Giovanni Barracco (1820-1914) di Isola Capo Rizzuto ebbe passione per l’archeologia, raccolse un museo che donò alla città di Roma; Domenico Carbone-Grio (1839-1905) di Tresilico fu garibaldino, democratico, storico e archeologo; studioso di statistica fu Giorgio Curcio (1832-1894) di Pizzo (statistiche dei culti, penali, giudiziarie comparate); di sociologia e patologia sociale fu studioso Antonio Di Bella (1853-1912) di Nicotera; orientalisti furono Cesare Antonio De Cara (1835-1905) di Reggio, gesuita, studioso degli Hyksos, di egittologia e lingue semitiche, rappresentante di «Propaganda Fide» al Congresso degli Orientalisti di Stoccolma nel 1889 e Francesco Scerbo (1849-1927) di Marcellinara, sacerdote, amico di Croce, Papini, Fausto Nicolini, Rohlfs, insegnò Letteratura ebraica all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, scrisse una grammatica della lingua ebraica (1888), saggi glottologici (1891), uno studio sul dialetto del paese natio (1886), un saggio di critica biblica (1903), pubblicò I Salmi nel testo originale (1925); storico e archeologo, topografo antico ed epigrafista fu Antonio De Lorenzo (1835-1903), di Reggio, vescovo di Mileto; di Cardinale furono Domenico De Luca, primario oculista agli Incurabili di Napoli e autore dal 1854 al 1886 di importanti studi di oculistica e Giuseppe De Luca (1823-1895) geografo, autore di studi sul Mediterraneo, geografìco-statistici, direttore del disegno di atlanti geografici, collaboratore del dizionario geografico universale pubblicato a Parigi da Hachette; in relazione agli studi storici intorno a Dante ricordiamo Gregorio Di Siena di Montepavone morto nel 1888, autore di un commento all’Inferno, Mario Mandalari (18511908) di Melito Porto Salvo, allievo di De Sanctis e autore di studi su Dante e la Calabria ma anche raccoglitore dei canti del popolo reggino, studioso di Bandello in Calabria, dei rimatori napoletani nel Quattrocento; Francesco Mango (1856-1900) di Acri studiò Dante, Gioacchino da Fiore, Sertorio Quattromani, Nosside; Giuseppe Mantica (1865-1907) di Reggio, poeta e scrittore per l’infanzia; compositori anche di opere furono Rocco Trimarchi di Sinopoli, autore di Le notte di Siviglia, Michele Valensise (1822-1890) di Polistena che compose il melodramma Eleonora di Toledo, Vincenzo Valente (1855-1921) di Corigliano che compose operette come Donna Paquita, La contessa catalana, Rotondino, Armando Lucifero (1855-1933) di Crotone, di famiglia dedita per tradizione alla ricerca storica fu archeologo, paleontologo e naturalista; si deve a lui la scoperta del «cranio di Caria» rinvenuto (1899) nei pressi di Girifalco, con altri reperti costituì il primo nucleo del museo di Crotone; tra le sue opere sono Avifauna calabra (1901), Mammalia calabra (1901), scritti sui terremoti in Calabria, sul 1799 a Crotone, tradusse l’opera di Lenormant sulla Magna Grecia (1931-35); compose anche dei Versi (1929) e poemi drammatici (Tiberio e Sibariade); Pietro Ardito (1833-1889) di Nicastro, sacerdote, patriota, sospeso a divinis per il suo risorgimentalismo, visse per circa venti anni a Spoleto, fu lontano dallo spinto cattolico di crociata contro la cultura moderna, fu favorevole a lo sviluppo della scienza; compì studi su Parini, Poerio, Koerner, Vittorio Imbriani, la Guacci, compose una monografia su Nicastro, in estetica sostenne il concetto della «grande idea» nell’arte; Hettore Capialbi (1842-1919) di Monteleone ha diretto, con Francesco Pititto l’Archivio storico della Calabria.

Uno degli aspetti culturali più notevoli del Liceo classico di Reggio (istituito nel 1814 da Gioacchino Murat) è il suo rapporto con la vita dei grecanici della provincia reggina nonché la divulgazione di testi grecanici. Nel 1864-65 Francesco Tarra milanese, allievo di Domenico Comparetti a Pisa, andò a insegnare a Reggio nel Liceo «Campanella» e approfittò dell’occasione per procurare al Comparetti 35 dei 38 canti di Bova che sarebbero stati pubblicati dal maestro nei Saggi dei dialetti greci dell’Italia meridionale (1866). Dopo il Tarra andò a insegnare nel Liceo di Reggio Astorre Pellegrini che negli anni Settanta del secolo scorso pubblicava su una rivista un saggio intitolato Il dialetto greco-calabro di Bova. Nel 1878 un altro professore del Liceo reggino, Giuseppe Morosi, pubblicava lo studio Il dialetto romaico di Bova di Calabria al quale sarebbero seguiti altri lavori sull’elemento greco nei dialetti del territorio di Reggio. Dopo l’abolizione del rito greco a Bova verso la fine del Cinquecento ì grecanici videro arretrare la loro lingua. Il popolo continuava ad usare la lingua greca (nel 1790 il vescovo di Bova, il quale aveva ordinato ai sacerdoti di usare la lingua italiana nella predicazione dovette fare tradurre in greco dai parroci i sermoni rivolti al popolo) ma dopo l’Unità il capoluogo della Bovesia cominciò ad abbandonare il greco che si venne frantumando, diminuirono i bilingui in un contesto scarsamente alfabetizzato. Le condizioni economiche e civili di arretratezza emarginarono le popolazioni grecaniche tanto da renderle oggetto di derisione per il loro carattere primitivo, per i vestiti agresti, pastorali, per la loro lingua: vennero chiamati paddechi, tamarri, zangrei, parpàtuli. Le popolazioni erano state riscoperte in mezzo ai boschi da Carlo Witte nel 1820 in condizioni paleobiologiche, di pastori che vivevano di economia chiusa, non dissimili da altre popolazioni montane calabresi viventi di pastorizia e staccate dal consorzio di vita moderno, come quei pastori del monte Cocuzzo dei quali è stata riprodotta la farchinoria in cui si presentavano rituali antropologici che risalivano al mondo pagano. L’importante notizia sul Tarra sopra ricordato si deve a Franco Mosino.

Ricordiamo il poeta albanese Giuseppe Serembe (nato nel 1844 a S. Cosmo Albanese) anche come un simbolo della condizione esistenziale in cui si vennero a trovare gli scrittori italo-albanesi di Calabria in un secolo come l’Ottocento nel quale parteciparono al risorgimento dell’Italia con la forza della loro vigorosa etnia, con la lealtà del sentimento italiano e che, dopo l’Unità d’Italia, provarono sulla loro pelle, con l’estraneità politica, con l’esilio morale, l’amaro stato della «minoranza». L’impegno politico di Michelangelo Serembe padre di Giuseppe, arruolatore di volontari albanesi nel 1848 per quella che avrebbe dovuto essere la resistenza assoluta ai borbonici a Campotenese e che si risolse in modo disastroso, distrusse le sostanze dell’agiata famiglia. Giuseppe cominciò gli studi nel collegio di S. Adriano di S. Demetrio Corone ma non li poté concludere. Morto il padre prematuramente, assassinato il fratello della madre che era l’unico sostegno rimastogli, il poeta che avrebbe voluto romanticamente «fuggir su i mari e in strania gente» per «diradare col tempo il suo dolore» vede quell’assassinio come una folgore che

scese di qua solcando le colline
spezzò i fiori e mi bruciò
ed io rimasi come legno troncato
e stetti e vissi come la pietra del fiume
che non si cura di chi la rompe

Il viaggio è reale, non romantico, in Brasile nel 1874, disavventurato per Serembe che venne malmenato, incarcerato, chiuso poi in manicomio. Nel 1875 sbarcò a Le Havre ma ignoti malfattori gli rubarono a Marsiglia danaro e parte dei manoscritti; giunse a piedi a Livorno da Nizza, presso l’amico Demetrio Camarda, poi ritornò a S. Cosmo. Nel 1883 pubblicò a Cosenza Poesie italiane e canti originali tradotti dall’albanese. Nei suoi versi, spesso autobiografici, accesamente lirici, c’è il desiderio di cambiare il mondo e lottare contro le ingiustizie, il sentimento romantico dell’amore, lo scacco della fede che non lo aiuta più per il troppo pianto versato e per le avversità persistenti: egli si sente «uomo che ha perduto il destino», neanche l’amata, invocata, risponde. Tuttavia occorre resistere: «Corri alla meta e non curar la morte, | carpisci il vero» come Prometeo. Riconoscimenti ebbe da Giacomo Zanella e da Domenico Milelli nel 1883; il primo ammirò la forza e la grazia impareggiabile, il secondo vide nei versi di Serembe «le cantilene popolari delle saghe, con una mescolanza di salterio davidico e d’innocenza indiana». Intorno al 1890, ammalato, si sente vittima «del trono e dell’altare»; nel 1895 è a New York, nel 1897 in Argentina, poi in Brasile, nel 1901 a S. Paolo del Brasile un emigrato di Corigliano lo vide battere i pugni contro un muro e imprecare contro il re d’Italia.

La vita di Serembe si svolse controtempo: un diverso, un esule, un povero, un idealista in epoca positiva, in una regione scompensata in cui egli non era professore né scienziato né galantuomo.

Il rapporto tra Nord e Sud mise in rilievo, dopo l’Unità, l’aggravamento delle condizioni dell’Italia meridionale non più Regno, della Calabria non più animata dalla tensione regional-patriottica. Padula e altri intellettuali avvertono che l’ingiustizia sociale particolarmente sentita dalle plebi potrebbe delegittimare l’Unità e si sforzano di procurare il consenso al Governo liberale, con una educazione civile che condanni la ribellione. In tale posizione le classi subalterne vedono il consolidamento dei galantuomini. Finisce l’epoca delle lotte ideali, le culture regionali si collegano con quella nazionale; la specificità calabrese confluisce nella questione meridionale nella quale avrà scarsa presa la cultura democratica. Il gioco sarà fatto ormai dalle forze ministeriali, dai nuovi assetti dello Stato che ha i suoi interessi fondamentali nella dirigenza settentrionale moderata, fedele al modello piemontese. Il declino del mondo contadino fa smarrire alla Calabria la sua identità ma prima che essa sia cancellata il mondo contadino tenta la sua anabasi con la lotta (brigantaggio) contro la mancata divisione delle terre demaniali, emigra dopo la sconfitta, protesta con la sua eccezionale e popolare letteratura dialettale. È una vampata di letteratura che si può chiamare ancora calabrese; poi non potrà avere che indirettamente funzione calabrese lo scrittore operante a Napoli, Roma, Firenze, Milano, che lavora nel giornalismo, che insegna in altri luoghi (anche perché la Calabria è priva di università, case editrici, giornali, scuole, ospedali ecc.).

Nel 1871 il numero degli analfabeti in Calabria è altissimo, la percentuale è 87%; nel 1901 sarà 78,7%. La riforma elettorale del 1882 rende vivi operai e artigiani delle città ma ci fu un tentativo prima conservatore e poi reazionario di perpetuare il monopolio politico di una frazione della borghesia; il fallimento consentirà l’alleanza della borghesia industriale e del movimento operaio riformista. Ma nel periodo crispino il vero disegno organico attuato dalla borghesia è stato l’imposizione dell’autorità centrale su tutti gli aspetti della vita sociale con conseguenze politiche e parlamentari di subordinazione delle regioni e degli interessi locali al potere dei notabili fortemente rappresentati.

La Calabria entrava nello Stato unitario con la sua borghesia nata dal feudalesimo, erede o ladrona di terre feudali, borghesia non di imprenditori ma di reddituari conservatori, nemici dei briganti i quali emergevano dalla realtà sociale della regione. Il mito unitario fu un elemento potente di aggregazione patriottica che consentì di intendere il brigantaggio come legittima lotta contro i contadini. Tale mito non consentì a Padula di intendere il blocco storico Nord-Sud, di vedere i briganti originati dal sistema politico-sociale. La descrizione in lui prevale sulla verità politica; per quel mito il Pallavicino (e molti militari e politici) vedevano i poveri come manutengoli dei briganti.

La mafia nella provincia reggina è ricordata in relazioni ufficiali fin dagli anni immediatamente successivi all’Unità. Nella realtà la mafia è mezzo di promozione sociale (avere e potere), di passaggio a una classe superiore con la violenza; la classe feudale dà potere al ceto medio rurale soprattutto attraverso un’operazione politica protetta dallo Stato unitario e dal blocco storico (agrari del Sud e borghesia del Nord). Picciotti e industrianti sono personaggi caratteristici del reggino che non troviamo nel cosentino dove il brigantaggio è stato molto consistente.

Il sistema dell’età positivistica è guidato dalle coordinate della cultura borghese che crede nel progresso della scienza e, lasciata da parte la visione romantica, invita a guardare al reale per costruire la nuova Italia tenendo l’occhio allo sviluppo delle nazioni europee. In questa età molto complessa per la prima volta le regioni italiane si confrontano e si scopre la loro diversità, la peculiarità di certe minoranze. Storia e letteratura cercano di avvicinarsi alle scienze esatte, Carducci invita i poeti a essere grandi artigiani creatori di tecnica e di poesia che non si ispiri al romanticismo, De Sanctis ricostruisce la stona della letteratura adeguandola al rapporto con la vita morale della nazione della quale scopre forti limitazioni nel passato medievale, in quello cortigiano.

Nel quadro della cultura borghese del positivismo la questione calabrese (come quella meridionale) è presentata come questione criminale di ordine pubblico, di leggi speciali. La borghesia nazionale aveva bisogno di controllare ogni opposizione che veniva ricondotta alla «questione criminale», la tesi della scuola antropologica positiva è che esiste una inferiorità razziale dell’Italia meridionale, unita alla tesi della decadenza della razza latina, mediterranea. Si contrappongono due Italie, si inventano due psicologie del cui ricordo esistono ancora indelebili tracce nella cultura e, soprattutto, nel modo di pensare di tanti meridionali che non giungono a definire la chiarezza teorica dei problemi. Gli studiosi che studiano l’antropologia erano spesso socialisti perché il socialismo rappresentava il pensiero moderno ma erano lontanissimi dai ceti popolari sia del Nord che del Sud. Almeno i letterati e i poeti avversi ai ceti popolari non credevano nel socialismo, lo temevano, ne avevano avuto paura ancor prima che in fiaba fosse avvenuta l’organizzazione politica socialista (Pirandello, Fogazzaro, D’Annunzio, Verga, il secondo Pascoli, il secondo Carducci ecc.). Agli antropologi la realtà dell’Italia meridionale appariva non modificabile, disperata.

Nel 1898 Cesare Lombroso pubblicava In Calabria in cui ristampava, con aggiunte, ciò che aveva scritto nel 1862 durante un soggiorno di pochi mesi nella regione. I documenti di letteratura popolare e dialettale vengono fatti risalire a una radice razziale (l’ellenismo greco-romano dà carattere delicato e raffinato a tanta produzione popolare; alla forte presenza semitica si deve la scarsa stima che si ha della donna; al costume spagnolo risale l’ozio dei calabresi che lasciano le loro industrie a inglesi e genovesi, ecc.). Le popolazioni della regione sono per Lombroso violente, nervose, astute, mobili passionali, lascive, con quei caratteri della psicologia meridionale che venivano precisati da Niceforo, Sergi. Alla criminalizzazione compiuta da Lombroso spesso i calabresi hanno risposto nel modo più inadeguato, con le «fughe nel passato, mitizzazioni proiettate nel mondo glorioso della Magna Grecia, retoriche della classicità, nostalgie inautentiche del mondo antico, lamentele inconcludenti contro i responsabili esterni» (Vito Teti) per autogiustifìcare i propri limiti e le proprie responsabilità.

«L’ozio vi è eretto a merito, l’odio a sistema e l’accattonaggio a mestiere», le scuole «a nulla approdano» perché mancano libri, giornali, buoni maestri, per non pochi maestri la scuola è «occupazione accessoria» (la vera attività è quella di «agenti elettorali») (le note sulla scuola e i maestri derivano dalla relazione sull’anno giudiziario 1894, le altre da constatazioni de visu o da studi e indagini municipali). In tale ambiente la superstizione diventa «un istinto che si eredita e si fa sovrana sugli altri». Raramente le affermazioni di Lombroso non derivano da conoscenza diretta o da statistiche e le conclusioni sono logicamente dedotte: l’unificazione d’Italia non ha recato benefici sociali alla Calabria, nell’agricoltura, nell’emigrazione, nella criminalità, nell’economia, nelle scuole la situazione è andata, anzi, peggiorando mentre i vantaggi derivanti dalle scuole, dalle ferrovie sono stati più apparenti che reali. Il primo rimedio per Lombroso sarebbe, alla situazione critica della Calabria, lo spezzettamento del latifondo e la restituzione ai comuni delle terre usurpate dai baroni e dai banchieri («loro sostituti ed alleati»); in tal mondo si eviterebbe l’isterilimento delle terre, l’emigrazione; il secondo rimedio sarebbe l’istruzione laica e democratica, la sostituzione delle scuole classiche con scuole di lingue e di agricoltura; altri rimedi importanti: la cura delle precauzioni igieniche, la salvaguardia del territorio, la diffusione delle acque minerali che sono abbondanti, la sostituzione del personale non tecnico addetto agli ospedali, la creazione di teatri, gabinetti di lettura, società agrarie, l’invio di ispettori per sorvegliare gli impiegati locali per migliorare una terra «entro cui germina nascosto il seme di nobilissimi ingegni e di cuori magnanimi, antichi».

L’inchiesta di Lombroso, sintetica, si appoggiava a dati effettivi e alla verifica di condizioni antropologiche e vedeva i calabresi nelle loro antiche qualità umane ma anche nei loro vizi collegati con l’ambiente e con la struttura economica e politica della regione. Non mancò in Calabria il risentimento contro il Lombroso che avrebbe offeso l’onore regionale sicché Enrico Morselli nel 1903 nel suo studio psichiatrico sul bandito Giuseppe Musolino ritenne doveroso difendere il Lombroso e, a sua volta, sottolineare che le donne calabresi raggiungevano la più alta cifra europea dell’analfabetismo (87%), che nelle tre province calabresi esisteva una sola scuola tecnica statale, nessuna industriale, professionale, artistica, agraria, che la media dei litigi in Calabria era del 114 per mille, che l’industria mancava quasi del tutto e che l’assenteismo dei grandi proprietari manteneva basso il movimento locale del danaro, che non esistevano ferrovie complementari e che i trasporti interni avvenivano con mezzi e veicoli primitivi e spesso solamente a dorso di mulo.

Il Morselli richiamava gli studi di Pullè per quanto riguarda la psicologia etnica dei calabresi e ricordava che il rispetto alla vita e all’integrità altrui era scarsissimo, che la delinquenza sanguinaria era intensissima, scarsa la tendenza al militarismo – nonostante lo spirito di indipendenza e la «eccessiva delinquenza di sangue» –, notevole il riserbo nel manifestare il proprio pensiero e i sentimenti, accesa l’ammirazione per gli spiriti ribelli, coraggiosi, cavallereschi, disposta all’astrazione la mente, serrata nell’aggregazione domestica la famiglia, scarsi gli enti morali collettivi, i sodalizi miranti al pubblico bene perché la vita sociale manca del tutto in conseguenza del persistente feudalismo: il re è considerato come «un distributore arbitrale di giustizia», come un essere «dotato di poteri immensi, che fa e disfa le leggi a suo beneplacito, che dispone della libertà e vita dei cittadini». Lo studioso conclude che la Calabria sta, per sviluppo sociale, al di sotto di tutte le altre province peninsulari e che il delitto in Calabria nasce soprattutto per vendetta, per malsana organizzazione dei sentimenti la quale induce al malaffare, alla facinorosità delinquenziale, alla simbiosi parassitaria per cui i meno intelligenti e arditi si pongono accanto al malandrino più ingegnoso e audace organizzandosi in banda.

Il sociologismo positivistico del Morselli si affidava eccessivamente al tecnicismo della semiotica delle malattie mentali senza lasciare spazio sufficiente ai fattori ambientali, alle condizioni particolari, alle tradizioni storiche patologiche (che certamente non ignorava); la sua antropologia psicologica e la sua sociologia morale hanno radici nel concetto di razza, di ethnos. Eppure un diverso concetto di antropologia si sarebbe potuto conoscere de visu osservando le scene della farchinoria dei pastori del monte Cocuzzo i quali ancora nel 1891 recitavano un loro rito, probabilmente di iniziazione sessuale, congiungendosi con le pecore in un’orgia dionisiaca che era «malsana» ma era una sopravvivenza di usanze millenarie collegate con resistenza solitaria, segregata:

Ccu piecuri, ccu crapi e ccu crapuni;
milli fimmini ’riterrà haiu a minari,
nun haiu a lassari mancu lu gattuni;
’nterra e ’ncielu stu latti l’haiu a spanni,
haiu a futti l’auciellu a lu vuluni!

Questa farchinoria con la visione di una Calabria pastorale rozza e arcaica si contrapponeva alle idee generalizzanti della scuola deterministica in quanto documentava uno degli aspetti della poliforme vita calabrese del tempo.

Alla scuola antropologica positiva appartiene anche Pasquale Rossi (1867-1905) di Cosenza, politicamente impegnato nella militanza socialista vicino ai bisogni delle popolazioni meridionali, autore di L’animo della folla (1898). Per Rossi esiste una psiche collettiva una dinamica psichica, sentimenti, emozioni che fanno muovere all’azione. Si laureò a Napoli in medicina e chirurgia, fu prima mazziniano e poi ardente socialista. Nel 1893 ritorna a Cosenza, collabora a «La lotta», rivista della borghesia illuminata, contrasta la tesi reazionaria della immutabilità delle condizioni socio-economiche, sostiene che le idee nuove trionfano dopo lunga lotta tra vecchio e nuovo istruzione è la sola arma capace di non fare risorgere gli strati interiori della coscienza. Accanto alla folla criminale c’è una folla normale.

I riferimenti culturali di Rossi sono le ricerche dei positivisti (antropologi, psicologi, sociologi, criminologi come Morselli, Ferri, Angiulli, Sighele, Lombroso ecc.) ma anche gli studi di Darwin, Marx, Spencer, Haeckel, Labriola. Per Rossi anche le folle invecchiano per avere troppo vissuto o per l’intristimento dell’ambiente sociale ma la senilità non è irreversibile. L’adesione di Rossi alla scuola positiva non è accettazione acritica delle idee dei positivisti perché il suo socialismo è autentico e gli consente di vedere i mali profondi della cultura borghese: la scuola positiva era per lui la modernità che gli consentiva di uscire dalla periferia, dalla provincia. La cultura scolastica della provincia è astorica, ha come modello la cultura classica che è tipica di situazioni storiche e sociali diverse. Nell’Italia meridionale vi possono essere dei Capanei ma «la massa è vile e criminale, pieghevole a tutti i venti, devota a Dio ed al diavolo: e dinanzi a quella del Nord è la vandea che assolve i crimini degli uomini politici, che li favorisce, che passa dall’osanna al crucifige»; «un grosso elettore può ridersi delle leggi, fare le votazioni nel proprio castello, mettere, come votanti, e morti e analfabeti, far commettere omicidi e non pagarli; e poi goder fama d’onesto, ricevere le visite dell’autorità»; «La stessa unilateralità e scarsezza di cultura fa sì che del putridume che ci avvolge, non si conosca né la causa né il rimedio: […] vi risponderanno che gli uomini siamo fatti così; domandate il rimedio e voi sentirete additare il ritorno al passato»; «un altro lato della psiche meridionale è la mancanza di passionalità alta e stabile», caratteristica dei popoli vecchi i quali non sentono le lotte collettive per la civiltà ecc. sono motivi centrali degli studi di Rossi su un Mezzogiorno ricco di genio «ma così ancor plebeo», «una terra di morti».

Gli studi di Rossi sul folklore mirano a fare vedere che le espressioni della folla sono prove della collettività come matrice di progresso e non di criminalità. Tali espressioni non sono solamente passionali ma hanno anche carattere intellettuale; il Rossi intuisce genialmente quello che circa cinquanta anni dopo Della Volpe avrebbe ritrovato con l’aiuto del marxismo (la presenza nella metafora di valori intellettuali e non solamente lirici o immaginativi). Rossi supera, quando si occupa di folklore, la pura erudizione settecentesca e l’ammirazione romantica per le tradizioni popolari. Nei proverbi la folla intuisce se stessa e il proverbio ha valore relativo; nella folla Rossi, contrariamente agli studiosi positivi che erano al servizio della borghesia e volevano fare intendere che la loro scienza fosse obiettiva, indicò gli elementi che ne rivelano una vita normale ma anche «capace di novella educazione». Il carattere meridionale è da porsi in relazione alla storia della civiltà sicché le parti ereditarie perdono valore e ne acquistano gli stimoli provenienti «dal milieu sociale in cui il carattere si forma» (Cornacchioli). La storia del carattere è in rapporto con la storia della società e il carattere meridionale proviene da una classe dominante carica di provincialismo, di idee precapitalistiche, di preconcetti contro l’istruzione; proviene anche da uno strato popolare che, ignorante e incosciente, non pretende una istruzione adeguata al momento storico. L’«arresto storico» del quale parla il Rossi e che fa consistere la Calabria in epoca altrove superata si spiega con la sopravvivenza del feudo, nel dilagare del latifondo: dominano le confraternite religiose, le società operaie con i padroni danarosi «posti talora sotto la protezione dei santi».

Rossi auspicò l’avvento di una borghesia moderna e industriale in Calabria, ben diversa da quella semifeudale e parassitaria del tempo suo, che seguisse i metodi educativi collettivi e negli ultimi anni si dedicò alla demopedia, l’educazione della folla. Pasquale Rossi morì giovane, di fatica, per la dedizione alla sua causa. Altri suoi scritti sono I perseguitati, Psicologia collettiva morbosa, Esami ed educazione servile, Genio e degenerazione nel Mazzini, La mente di Mazzini e la psico-fisiologia, Mistici e settari, I martiri cosentini del 1799, Sociologia e psicologia collettiva, Le rumanze ed il folklore in Calabria; nel 1903-04 impresse una svolta culturale democratica all’Accademia Cosentina. L’azione di Rossi a Cosenza, quando a fine Ottocento mancavano imprese produttive, borghesia imprenditoriale e presenza operaia, essenzialmente politico-culturale insieme con Giovanni Demanico, Nicola Serra, Camillo Loriedo, fu accompagnata da un rinnovamento che ebbe la sua base nei circoli culturali Democratico operaio, Democratico anticlericale, Lega del lavoro, Repubblicano.

Ai temi del romanticismo calabrese trattati da Padula, Miraglia, Mauro si ricollega Nicola Misasi di Cosenza (1850), romanziere popolare il quale amò la realtà della natura, dei luoghi, degli ambienti della Sila. Paesi e villaggi silani racchiudono per Misasi personaggi fuori del comune nei quali vivono violente passioni d’amore, di gelosia, di vendetta, elementi caratteristici della psicologia calabrese del romanticismo. L’eroe romantico vive di passioni esasperate perché, essendosi spezzata la possibilità di ridurre la realtà ad unità, la grande e profondissima ispirazione della Calabria antica, religiosa e monacale, le forze dell’istinto e dell’irrazionale travalicano e rompono i freni delle aspirazioni etico-religiose, l’individuo infrange la norma. In tale senso Misasi si ricollega ai romantici ma nelle sue numerose pagine di racconti, di romanzi gli accenti lirici sono assorbiti dal nuovo modo di vedere veristico e naturalistico. Le passioni contrastate, gli istinti feroci, i briganti le cui azioni, specialmente al tempo dei francesi, sembrano rivestire un carattere patriottico, sono i temi del Misasi il quale riesce, con i suoi quadri di costume, il più felice coloritore della vita calabrese e provinciale, particolarmente di quella silana.

Il Misasi aveva trascorso nella giovinezza degli anni a Napoli come giornalista occasionale ma era vissuto quasi sempre in Calabria (muore a Roma nel 1923). Le sue esperienze culturali non sono state ricche come si può notare nella prosa vivace ma non matura e non sempre regolata. Egli è il tipico rappresentante di quella letteratura realistica, provinciale, di origine romantica che si ispira alla regione (nel caso particolare una regione ricca di contrasti) e che egli vedeva con rammarico scomparire per opera dei tempi nuovi che Misasi guardava con diffidenza; dai primi Racconti calabresi (1882) a Marito e sacerdote (1884, storia di un triangolo amoroso i cui protagonisti sono albanesi di Calabria che vivono nella valle del Crati custodendo riti e costumi del loro mondo), Femminilità (1887), Resurrezione (1892), La caccia al marito (1892), Giosafatte Tallarico (1889), Carmela (1889), La badìa di Montenero (1902), Devastatrice (1905), Il tenente Giorgio (1908), Solo contro tutti (1911) non c’è molta evoluzione di arte. Nel volume In magna Sila (1883) è la rappresentazione del carattere della regione (che ritroviamo anche in Il gran bosco d’Italia, 1900) mentre il saggista appare acuto nell’opera In provincia (1896) e il celebratore della propria terra in La mente e il cuore di S. Francesco di Paola (1907).

Il problema per il narratore Misasi doveva essere la rappresentazione artistica secondo le poetiche più rispondenti alla situazione reale italiana ed europea che era quella del naturalismo e del verismo. Misasi era vissuto più tra gli echi tardo romantici che tra le polemiche del verismo, i miti calabresi avevano ancora troppa suggestione in lui perché potesse penetrare nel metodo della narrativa europea e francese in particolare come facevano Verga e Capuana. Ma per capire la Calabria non occorreva guardare la natura e i personaggi pittoreschi quanto, invece, vedere il peso interiore, morale, della questione agraria che aveva suscitato il brigantaggio; il mondo dei primitivi o il mondo borghese erano da vedere nei loro nodi, attraverso la poetica nuova, moderna del naturalismo con la coscienza critica di essere italiano ed europeo. Senza tale coscienza critica il folklore e lo strapaese sono non il reale e il vivente ma la memoria del passato che non vive più perché la vita non vive per i costumi ma per l’essenza.

Una narrativa naturalistica calabrese non è esistita perché non c’è stato in Calabria un grande centro metropolitano nel quale si elaborasse il sentimento borghese della borghesia, in cui esso celebrasse riti e trionfi, si espandesse, attirasse con il suo illuminismo i ceti popolari. In Calabria c’erano solo borghi rurali che apparivano città e c’erano proprietari non illuminati e carichi di calabresità. Infine è mancata la genialità del grande narratore.

Misasi è solitario, non vive in un sodalizio di scrittori come i siciliani che operano insieme e con gli stessi motivi, nel romanzo e nel teatro; Verga, Capuana, Martoglio, Pirandello, Musco, Alessio Di Giovanni, Rosso di San Secondo vivono «realisticamente» – cioè producendo e confrontandosi – insieme. La Calabria non oltrepassa il proprio regionalismo ed è, addirittura, in arretrato rispetto alla cultura del tempo; essa non propone problemi che non siano quelli del mondo meridionale, generici; la sua letteratura narrativa è filo-stereotipo calabrese o di evasione, priva di problemi.

La decadenza dell’epos brigantesco determina la degradazione, nella cultura ufficiale, dell’eroismo a efferatezza; nasce la criminalizzazione del calabrese come brigante mentre nella cultura popolare la figura del brigante mantiene gli elementi di giustizia e generosità che erano nella struttura storica del movimento di lotta. Altra forma di degradazione operata dalla cultura ufficiale è quella del brigante ridotto a elemento pittoresco facente parte del colore locale. Secondo Nicola Misasi per quanto riguarda la genesi del brigantaggio non si deve badare alla «questione agraria, quando è forse una questione fisiologica e topografica» o «il prodotto di una natura forte e rigogliosa, la quale, diretta al bene, potrebbe essere capace di grandi virtù, come finora fu capace di grandi delitti»1. Sparsi qua e là, nei racconti, questi motivi in Misasi assumono aspetti di populismo didascalico-sociale, di rappresentazione di un mondo di primitivi, di folklore borghese (dissonante è l’uso del dialetto per descrivere oggetti e costumi del popolo calabrese). Infatti non manca la difesa del principio di autorità per timore dell’anarchia:

[…] in quel piccolo mondo che par tanto lontano dal nostro […] una virtù era altissima che derivava […] dalla schiavitù politica e religiosa in cui si viveva: il rispetto, sincero, profondo, sconfinato per l’autorità […] Il dispotismo politico generava il dispotismo familiare […] Eppure in quegli schiavi, che gagliarde tempre, quante fiere e generose virtù, quanto ingegno e quanta profonda dottrina! (In provincia)

La confusione ideologica (la fierezza calabrese che vige con l’illibertà e si spegne con la libertà) è notevole: essa deriva da stereotipi che hanno appiglio con storia e con la realtà. In L’assedio di Amantea (1893) Misasi scrive che «odio» e «cieca invidia» armano il braccio e fanno tramare i calabresi l’uno contro l’altro, che i calabresi vendono l’anima allo straniero e che se fra i parteggianti per lo straniero non mancarono i pochi i quali «volevano che la libertà non fosse un vano nome» gli altri seguirono «l’arruffìo e il baccanale». Se nel Romanzo della rivoluzione (1904) Misasi esprime la necessità di venire a contatto con gli altri popoli e di uscire dalla Calabria, il suo principio fondamentale rimane quello populistico e socio-naturalistico della «natura ardita e fiera», «primitiva ed affatto vergine» del popolo «nobilissimo». Nel condizionamento dell’ambiente che tende, nel secondo Ottocento, genericamente al reale, il ricorso allo stereotipo romantico idealizza il mondo paesano, rusticale, in modo affettivo-paternalistico, antitetico alla realtà che determina il brigantaggio e l’emigrazione e le voci diverse che troveremo ancora come ricerca di identità e di funzione storica.

Francesco De Sanctis conobbe la Calabria da esule politico vivendo a Cosenza e a Cervicati presso il barone Guzzolini. In casa dell’ospite venne arrestato nel dicembre del 1850. L’idea che De Sanctis si fece della regione fu quella di una terra non ancora civile, poetica per l’asprezza del paesaggio, per le montagne ricche di recessi e di burroni, abitata da uomini primitivi e animati da vigorose passioni. Non che tutto ciò non ci fosse: questo era l’elemento naturalistico di una regione che assumeva, agli occhi del visitatore e del letterato, contorni poetici ed estetici. De Sanctis non conobbe la vita reale dei calabresi e ci parlò non della società ma dell’idea di società primitiva che egli se ne era fatta: il «buon selvaggio» che rimane impressionato dalla psicologia di Byron è l’immagine che ha De Sanctis. Esattamente in quel tempo della dimora in Calabria De Sanctis si ispira al Vico che, esaltando l’«astuzia» della Provvidenza, crede nella funzione storica della barbarie incunabolo della futura società civile. Scrivendo al quattordicenne Bonaventura Zumbini nell’agosto del 1850 De Sanctis gli ricorda che «talora sotto le barbarie si nasconde la energia, e che dall’eccesso del male suol nascere il bene».

Da questa condizione mentale nascono – o, meglio, dal ricordo di questa condizione e dal ricordo della Calabria del 1850 e della sua cultura di allora – le pagine del 1873 sul «romanticismo naturale» calabrese e sul «popolo» calabrese: la formula era un sinolo epico e sentimentale che renderà legittima, più tardi, la concezione del brigantaggio come costume ribelle e avventuroso e non come lotta di popolo, il calabrese, contro i galantuomini e il governo per motivi economici e politici. «Vi si vede – scriveva De Sanctis – un popolo quasi ancora allo stato nomade ed eslege, dotato di una forza selvaggia nella quale penetra lentamente uno spirito cristiano»2: da questa indicazione la realtà materiale – che è contrasto di problemi e soluzione di essi, soluzione concreta e individua – sarà allontanata o mimetizzata con coloriture varie a seconda degli interessi degli interpreti (briganti o delinquenti si nasce si dirà più tardi). La calabresità come barbarie, già circolante nella prima metà dell’Ottocento diventava un dato a priori romantico-letterario postulato idealisticamente («Ne’ poeti calabresi, – aggiungeva De Sanctis – non solo non trovate la grande città come Napoli; ma nemmeno il villaggio […] la Sila, il convento della foresta, gli antri de’ banditi»); esso era, per il critico, un dato negativo perché nella Calabria mancava il «contenuto patriottico e civile» della letteratura settentrionale sicché la letteratura romantica calabrese era, come in tutta l’Italia meridionale, «leggerezza di contenuto», «vuoto sentimento», «vuota immaginazione». Il «colore locale», un dato sociologico, diventava positivo nei confronti della letteratura napoletana dove esso mancava ma il dato sociologico veniva usato da De Sanctis in senso idealistico, etico-estetico, a seconda dei casi: nel Valentino di Padula il personaggio Valentino era «l’ideale dell’ideale di Byron. Quel non so che di fosco, di truce, di terribile che è nelle creazioni del poeta inglese piglia tinte più fosche, senza un punto luminoso», era Byron esagerato, incupito, privo della moralità che è «serietà». Forse oggi avremmo detto che il personaggio era diventato parte della letteratura di consumo.

De Sanctis nel caratterizzare il calabrese dell’età romantica (eslege, nomade, brigante, esule) non indicava che tutta la società appenninica o montana italiana (dalla Romagna all’Abruzzo, alle Marche, all’Umbria) accoglieva gruppi di uomini, contadini, montanari, bande di briganti ed emarginati che vivevano oggettivamente nelle condizioni in cui vivevano in Calabria (dove, del resto, esistevano gli elementi storici e strutturali che erano alla base del brigantaggio) e non certamente per tendenza psicologica o per amore del colore. Il mito dei briganti calabresi feroci e vendicativi per natura derivava, invece, dalla realtà di una popolazione generalmente avversa ai Francesi, dalle relazioni ufficiali francesi sullo stato della Calabria i cui abitanti, analfabeti e selvaggi, erano paragonati agli stralunati abitanti del Caribe e in cui la situazione di guerra civile, incendi, saccheggi, violenze, vendette personali assunse per alcuni poeti romantici l’immagine di un mondo abitato da uomini che nella fierezza e nella vendetta trovavano la loro identità positiva nella condizione di oppressi.

Motivi letterari e psicologici uniti a quelli che De Sanctis chiamava «una sorta di sentimento patrio nazionale» completavano il quadro romantico di una società calabrese precivile e vivente allo stato di natura; accettabile come «colore» ma recante con sé troppo naturalismo perché potesse avere valore sul piano dell’arte dalla quale, nei romantici calabresi, De Sanctis espungeva l’erotismo paduliano non incanalabile negli schemi etico-estetici dell’idillio, l’orrido, la sensualità, l’impeto naturale delle passioni, le deviazioni psicologiche, tutto ciò che portava il riflesso di una società «appena in principio di trasformazione sotto le mani dell’uomo civile come le Romagne» e in cui le passioni giungono all’estremo.

La «calabresità» socio-antropologica di De Sanctis non ha una genesi reale bensì letteraria e produce quel pastiche che è il «romanticismo naturale» riflesso inerte di Byron o dell’ambiente, riproduzione di una società primitiva, non liberal-progressista come quella settentrionale. L’immagine della Calabria che si ha dalle pagine di De Sanctis è quella di un paese romanzesco, una categoria letteraria byroniana vista attraverso un mito che avrà largo seguito fino ai tempi nostri. Gli stereotipi desanctisiani sono diversi: il brigante eroicizzato, il vendicatore crudele, la «vita patriarcale» delle famiglie, il «santuario domestico», le «passioni intatte», la «natura altamente poetica». Tali stereotipi sono naturalistici, non hanno rapporto con lo stato sociale, con le guerre, le rivolte per la proprietà della terra. Il «romanticismo naturale» era il surrogato, alquanto sovrareale, della realtà del brigantaggio come protesta sociale e in quanto tale aiutato e protetto dalle popolazioni; ma era anche un elemento della rimozione della lotta di classe e dell’esame delle condizioni sociali delle popolazioni.

Tale incomprensione desanctisiana della Calabria reale deve essere inquadrata anche nella necessità, da parte del critico, di mantenere negli studi sulla letteratura meridionale i parametri adottati nella Storia della letteratura italiana. Questa, scritta nel 1870, è animata da una tensione morale che vede negli scrittori maggiori i rappresentanti della società e della cultura nazionale. Nelle lezioni napoletane in cui De Sanctis tratta dei poeti calabresi e del «romanticismo naturale» il critico deve proporzionare l’ethos degli scrittori nazionali e di quelli regionali ma intende scoprire i difetti di ethos nel divorzio di contenuti e forma, nella mancanza di unità, di fantasia creatrice. In questo senso gli episodi culturali romantici calabresi (villaggi precivili, briganti, natura selvaggia, spirito cristiano ecc.) interessanti e talvolta originali per la differenziazione da quelli napoletani, più convenzionali, rappresentano l’eco periferica e ritardata di quel romanticismo lombardo che era il vivente e interpretava il reale. Antichi vizi politico-culturali apparivano irrisolti in quell’arresto di vita che fu il romanticismo meridionale e il cui arresto fu determinato dalla politica paternalistica e napoletana di Ferdinando II, chiusa all’Europa. Ineccepibile, pertanto, il giudizio desanctisiano nella sua storicità, nel quadro etico-estetico del critico ma relativo al concetto intorno al reale del grande critico e sul movimento romantico.

Nel quadro dell’Italia unita gli scrittori pedagogici intendono proporzionare le qualità regionali, smorzare le accentuazioni, richiamare a una cultura nazionale-patriottica dello Stato moderno borghese gli elementi che caratterizzavano i precedenti reami e ducati. De Sanctis intende proporzionare meriti e livelli, Edmondo De Amicis cerca di avvicinare le regioni, che erano differenti tra esse per storia, lingua, costituzioni sociali ecc. Nel Cuore (1886) De Amicis propone un galateo sociale, morale, sentimentale per i giovani scolari che vede come i futuri dirigenti dell’Italia unita da istruire eticamente al progresso moderato nell’amore dell’esercito, della famiglia, della scuola, del lavoro, della pace tra le classi sociali. L’etica social-patriottica equipara i «forti lavoratori e bravi soldati» calabresi, in dignità, agli altri rappresentanti dell’Italia. Il «ragazzo calabrese» è presentato con i connotati tipici dei meridionali («un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita») della tradizione: fin dal 1792 il Galanti osservava che il colore nero era predominante nell’abbigliamento dei calabresi. L’altra connotazione della regione, terra di «bravi soldati», è pur essa tradizionale attraverso il topos della bellicosità guerrigliera che, iscritta nelle funzioni di un esercito regolare, diventa elemento positivo: Croce afferma3 che Bonaparte nell’Italia meridionale non temeva che l’armamento dei «paysans de Calabre» e citando Johnston, che i calabresi erano «insuperabili combattenti individuali per forza, coraggio, ferocia e pertinacia, i più temibili d’Europa nelle guerriglie, sebbene i più facili a smarrirsi come truppe regolari». De Amicis, rivolto all’unità della patria, oltrepassa la tipologia del calabrese brigante dell’età romantica e si sofferma sulla Calabria, «una delle più belle terre della nostra patria, dove son grandi foreste e grandi montagne, abitate da un popolo pieno d’ingegno e i coraggio». Nel quadro della concordia unitaria De Amicis non si inoltra nei problemi sociali della Calabria ma sottolinea che il ragazzo calabrese è un «fratello venuto di lontano», si augura che egli «non si accorga di esser lontano dalla città dove è nato» (Reggio Calabria): è sottointesa la consapevolezza del distacco dalla propria terra per motivi di lavoro dei familiari.

Stanislao De Chiara (1856-1924) di Cosenza si è occupato soprattutto di personaggi e figure calabresi, di momenti di storia letteraria della Calabria. Ha pubblicato pagine su Re Marco, Antonio Telesio, Galeazzo di Tarsia, i martiri cosentini e, soprattutto, uno studio su Vincenzo Padula (1923). Altra direzione dei suoi studi fu quella dantesca (saggio di commento alla Commedia, la «Pietra» e la «Donna gentile», la Commedia giudicata da Gravina, dantisti dell’Otto e del Novecento). Il ricordato studio sulla «Pietra» (1888) indica l’adesione di De Chiara al metodo positivista; già nel 1880 aveva espresso intenzione di preparare un commento filologico della Commedia seguendo quelli che per Petrarca e Poliziano aveva fatto Carducci e per Leopardi lo Zumbini. Il commento al V canto dell’Inferno è un saggio di un commento della Commedia del quale De Chiara ha lasciato manoscritto il commento della prima cantica, non originale ma utile per comparare i migliori commenti in circolazione.

Dante e la Calabria (1895) è la principale opera di De Chiara e non sfigura tra le opere che nelle regioni italiane nel secondo Ottocento furono dedicate a Dante come contributo all’italianità del poeta. Nel volume sono ricordate le traduzioni di canti o episodi della Commedia in dialetti calabresi; esistono anche notevoli studi come quello sulla lezione di «Catona» e altro sul «pastor di Cosenza» (indicato quale Bartolomeo Pignatelli) con ricca documentazione.

Il De Chiara, che scrisse anche libri di versi, fu presidente dell’Accademia Cosentina. In La mia Calabria (1920) c’è un modo di intendere la calabresità, quello di identificare il popolo con la sua «anima», di spiegare tautologicamente l’«anima» con le qualità del popolo calabrese. Il romanticismo socio-antropologico che si prolunga nell’estetismo sentimentale è anche nel De Chiara per il quale «l’anima del popolo calabrese è stata sempre» eroica e pudica, il popolo ha sempre tenuto in onore «la semplicità dei costumi, l’affetto alla famiglia, che poi altro non è, in fondo, che l’amor di patria»; ma del popolo amato il De Chiara censura, nei canti popolari, honestatis causa, la parte più corposa dell’anima; inoltre la «resistenza alle fatiche e alla miseria» (ancora lo stereotipo della forza e del vigore) fa sì che il popolo cerchi «le grandi correnti dell’emigrazione che, trasportandolo in luoghi aperti e liberi, lo affranca dalla schiavitù più disumana»; la miseria, cioè, diventa un allenamento all’emigrazione, l’emigrazione una liberazione dalla schiavitù della miseria. Quale era l’origine di tali contraddizioni in De Chiara? Era avvenuto che il De Chiara dall’ideologia positivista era passato nel campo dell’idealismo (come si vede nella seconda edizione del Padula, ormai crociano). Nella storia della cultura calabrese il contrasto fra tradizione e rinnovamento (fra cultura locale e cultura nazionale) si è svolto, solitamente, in relazione alla struttura di classe, con soluzioni moderate e reazionarie, con richiami e ritorni al passato nei termini di nostalgia, di ricalchi: è stato un continuo rimbalzare di echi, di ricordi, di archetipi pseudo-etici diventati feticci. Il classicismo formalistico, la tarda arcadia, i vanti e i blasoni della letteratura popolare, i proverbi ambivalenti, il ridondante barocco della letteratura in lingua (che ha avuto poche e notevoli eccezioni) hanno sorretto per secoli il feudalesimo e contrastato, censurato, rimosso il naturalismo che è l’asse centrale della cultura popolare, della filosofia, della letteratura dialettale. Il De Chiara nella sua giovinezza aveva fatto parte degli intellettuali progressisti di Cosenza che in nome di un pensiero «forte», quello naturalista e socialista, proponevano il rinnovamento anche della cultura; quando la dittatura della filosofia dello Spirito crociano (immanente ma sempre Spirito) occupa tutti gli angoli (lo Spirito, del quale gli uomini sono sentinelle, soffia per Croce da tutte le direzioni) il De Chiara ne viene assorbito.

Alfonso Asturaro (1854-1917) di Catanzaro diresse la scuola tecnica e l’istituto tecnico di Catanzaro, dal 1887 fu professore di filosofia morale nell’università di Genova. Nei Saggi di filosofia morale (1881) studia la teoria dei sentimenti morali da Shaftesbury a H. Spencer, il determinismo di Leibnitz, in Santa Caterina da Siena (1881) gli aspetti psico-patologici della personalità della santa, in Gli ideali del positivismo e della filosofia scientifica (1892) – per l’inaugurazione dell’anno accademico 1891-92 nell’università di Genova – tratta degli ideali della conoscenza, di scienza e vita, dell’ideale morale, economico e sociale, la Sociologia politica sono lezioni tenute alle università popolari di Genova, Sestri Ponente e Rivarolo, ampliate nel 1911; altre opere caratteristiche del suo positivismo e dei suoi studi sociologici e giuridici sono: Egoismo e disinteresse ossia Bentham e Kant (1882), Gerolamo Cardano (1887), La sociologia e le scienze sociali (1893), La sociologia, i suoi metodi e le sue scoperte (1897), Prefazione alla sociologia estetica di Adelchi Baratono (1899), Sociologia zoologica (1901), Il materialismo storico e la sociologia generale (1903-1904), Sociologia politica (1911) ecc. Della sua attività culturale si sono occupati Adelchi Baratono, G.L. Duprat, A. Posada, L. Gumplowicz, A. Colmo, Achille Loria, Fausto Squillace, E. Martinez-Paz, Corrado Barbagallo, G. Richard, A. Groppali, S.R. Steinmen, S. Fragapane, ecc., italiani e stranieri di università europee e americane.

Figlio di calabrese ma nato a Sondrio nel 1876, allievo di Asturaro a Genova e stabilitosi a Catanzaro nel 1895 dove fondò il circolo di cultura che più tardi avrebbe portato il suo nome fu Fausto Squillace (morto a Catanzaro nel 1919), socio dell’Istituto internazionale di sociologia di Parigi e professore dell’università Nouvelle di Bruxelles. Squillace scrisse Le dottrine sociologiche (1902), I problemi costituzionali della sociologia (1907), La scienza sociale e le sue parti (1909), Dizionario di sociologia (II ed., 1911) e uno studio sulla psicologia collettiva e sociale di Pasquale Rossi.

Molti calabresi sono presenti nei dibattiti promossi da Antonino Renda nei nove numeri di Pensiero Contemporaneo (ristampati da Augusto Placanica in Fermenti dell’intellettualità meridionale nella crisi di fine secolo, 1975); si cercano il diverso della cultura meridionale, le motivazioni della mancanza di interessi collettivi, di grandi correnti generali. Il Renda per promuovere l’idea degli uomini attori e non spettatori nella vita indica l’obiettivo di abbattere ciò che c’è di vecchio nella coscienza pubblica. Sulla questione meridionale si svolge un dibattito tra Lombroso, Loria, Grappali, Sighele, Bernardino Alimena, Nicola Colajanni, Salvemini, Pasquale Rossi, Trailo ecc.; il dibattito tocca i limiti della scuola positiva, i diversi livelli di civiltà tra le regioni italiane, la supposta inferiorità calabrese, la prospettiva di una influenza politica del socialismo adatta a modificare il determinismo positivistico. Il Renda (1875-1959) finirà fascista.

L’aspra polemica crociana contro la scuola storica ha coinvolto in modo improprio il nome di Zumbini; oltre il Croce, direttamente implicato nella polemica, sono stati anche i tardo-crociani a seppellire Zumbini negando, cumulativamente, agli studiosi storico-positivistici la coscienza del valore autonomo della poesia e la presenza della «personalità» (che sarebbe stata sommersa dal sociale o dal sociologico). Gli studiosi positivi sono condannati per l’abuso delle fonti (le fonti riportano al collettivo, le fonti inceppano l’individualità) e per la critica patografica che riguarda la malattia e prescinde dall’arte, dall’individualità artistica (la patografia tocca sia i singoli artisti sia i gruppi sociali: regioni, razze, meridionali, questione meridionale a proposito della quale si genera un positivismo critico – Fortunato, Colajanni, Salvemini con capostipite Cattaneo – e un positivismo mitico-reazionario con Lombroso, Sergi, Niceforo, Turiello). I romantici avevano esaltato il «genio», i patografi lo considerano degenerato come il delinquente. In Calabria Pasquale Rossi studia (1899) la degenerazione del genio in Mazzini, Nicolò D’Alfonso di Santa Severina studia Shakespeare dal punto di vista estetico e criminale.

I positivisti nel metodo critico (Zumbini, Vivaldi) non devono essere confusi con i patografi o patologi o con quanti vedono l’arte come un fenomeno essenzialmente antropologico-sociale. Per Pasquale Rossi l’organismo collettivo la cui nota affettiva dominante è il dolore ha un’unica psicologia dominante che oltrepassa e condiziona quella individuale: le folle come organismi si esprimono con il linguaggio, la leggenda artistica, i proverbi; dal contrasto tra ideale e reale si generano il profetismo, l’erotismo, l’ascetismo, il genio mistico; il genio è anfibologico, oltre che morbosità è fenomeno collettivo giovanile (che avrà come epilogo il momento psico-collettivo senile). Lo Squillace che ha studiato le teorie del Rossi ha criticato l’idea della psicologia collettiva isolata dagli altri aspetti sociologici, vede il Rossi più come letterato e filosofo che non scienziato. Squillace proponeva da parte sua una evoluzione della psicologia basata sulla distinzione di forme statiche e dinamiche della psicologia collettiva; le forme dinamiche sono il mito, la religione, la fiaba, l’utopia, la lingua ma, soprattutto, l’arte. Dal punto di vista sociologico l’arte è un fenomeno sociale e in estetica Platone rappresenta l’arte per l’arte, Mazzini l’estetica sociale e Asturaro l’estetica sociologica. Asturaro e Squillace considerano la sociologia zoologica base della sociologia umana che comincia con l’estetica; anche il marxismo rientra nel positivismo perché Marx ha fondato una legge sociologica (il materialismo storico) come Vico, Gumplowicz, Hegel, Saint-Simon, Comte.

Epigono dello spencerismo è in Calabria Antonio Torchia, autore di una Estetica (1924) in cui troviamo la distinzione tra concezione sociologica dell’arte e ricerca delle fonti. Le fonti più autentiche ci sfuggono, l’influenza delle fonti è generica, dobbiamo accontentarci di una vaga storicità.

Fausto Acanfora di Torrefranca nacque a Monteleone nel 1883. Laureatosi in ingegneria trovò lavoro nella Fiat a Torino. Guidato da Ettore Lena, riprese a studiare musica, si interessò della struttura e dell’evoluzione della musica nel tempo e soprattutto dei musicisti del secolo XVII e del XVIII. La musica per lui non era soltanto quella molcente del melodramma o della canzone ma aveva un ruolo specifico non nei suoi settori (operistico, cameristico, sinfonico) ma nella totalità. Nel 1912 in Giacomo Puccini e l’opera internazionale criticò lo squilibrio pucciniano tra grandi pagine e pagine canzonettistiche, tra scrittura sapientissima, gusto di orchestrazione e romanze orecchiabili, banali. Nel 1914 cominciò a insegnare Storia della musica, nel 1915 fu bibliotecario del Conservatorio di Napoli, poi di quello di Milano. Come storico rivendicò all’Italia la paternità di riforme attribuite a stranieri (notevoli i suoi studi su G.B. Piatti, G.B. Sammartini, Boccherini, Corelli, Vivaldi) nel settore sinfonico e cameristico (composizioni quartettistiche e clavicembalistiche). A Milano rimase dal 1924 al 1941, dal 1941 fu ordinario a Firenze di Storia della musica fino al 1953. Morì a Roma nel 1955. Le sue opere principali sono La vita musicale dello spirito (1910), Le origini italiane del romanticismo musicale (1930), Il segreto del Quattrocento (1939). Storicamente per Torrefranca la musica settecentesca è all’avanguardia nei confronti delle contemporanee arti figurative ma la preistoria dell’estetica è nel sociologismo vichiano-spenceriano-romantico. I positivisti calabresi fino ad ora ricordati hanno motivazioni culturali sociologiche ma scarsi interessi per la produzione patografica

Studi letterari, regionali, dialettali caratterizzano l’età del metodo storico. Oltre il De Chiara e i già citati Arnone, Di Siena, Mandalari, Mango, Mantica, si occuparono di Dante Raffaele Valenzise, Giuseppe Barone, Eberto Vincenzo Zappia. Giovanni Patari, Italo Carlo Falbo, Rocco De Zerbi sono vivaci giornalisti della società borghese che si identifica nel positivismo scientifico e che affretta la propria crisi nell’ultimo decennio del tramontante Ottocento.

Dalla critica storica deriva Vincenzo Vivaldi di Catanzaro (18561940) che ha insegnato per molti anni nelle scuole superiori di Catanzaro e ha pubblicato numerosi studi classici della nostra letteratura e sulle questioni della storia della lingua italiana. Fonti e fortuna di uno scrittore sono i temi più puntuali del metodo storico trattati dal Vivaldi in Fonti della «Gerusalemme Liberata» (1891), Due lavori su Giacomo Leopardi (1896), Storia del dolore in Leopardi, Storia delle controversie linguistiche in Italia (1894-98), La più grande polemica del Cinquecento (1895) o discussioni linguistiche o interpretazioni del metodo di De Sanctis.

Un medico che è l’emblema della fisionomia che hanno gli studiosi positivisti in Calabria è Diodato Borelli di Santa Severina (18381881), patriota, umanitario (morì per contagio da colera assistendo gli ammalati). Borelli (autore di un centinaio di studi di medicina) entrò nel dibattito sulla teoria evoluzionista soprattutto con Vita e natura (1879): le leggi chimico-fisiche generano l’evoluzione; contro i vitalisti e spiritualisti sostiene l’illusione dell’unità e identità dell’io (precede in ciò Pirandello che pure criticava il positivismo); non c’è causa finale che regoli i fenomeni organici e psichici del mondo; l’unica forma coordinatrice è la coscienza intellettiva che farà scomparire il dualismo tra mondo minerale e mondo organico.

  1. N. Misasi, Racconti calabresi, Napoli, Morano 1881.
  2. F. De Sanctis, La scuola liberale e la scuola democratica, a cura di F. Catalano, Bari, Laterza 1954, p. 167.
  3. B. Croce, Storia del regno di Napoli, Laterza 1944, III ed., p. 238.